Alessandro Giovannucci
Abstract
L’articolo analizza il fenomeno delle “posse”, una dimensione musicale e sociale nata tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. L’obiettivo principale di questo intervento sarà l’evidenziare i legami tra musica, politica e tecnologia di questa stagione della vita musicale e sociale italiana – ancora poco conosciuta – e di metterli in relazione con quanto accadeva nel nostro paese. Un’attenzione specifica verrà data al rapporto creativo con le tecnologie musicali e le nuove possibilità estetiche legate al loro utilizzo.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta in Italia si assiste alla nascita di una dimensione musicale e sociale interessante e ricca di implicazioni: il fenomeno delle “posse”. Un’intera generazione – i nati negli anni Settanta – trovò nella musica un linguaggio in grado di dare voce alle proprie aspirazioni, ai propri desideri e alle proprie rivendicazioni sociali e politiche. Nato in seno al movimento universitario della “Pantera”, il fenomeno delle posse raccoglie e rielabora le istanze politiche della sinistra più radicale, esprimendole secondo formule musicali provenienti dal mondo musicale giamaicano e afroamericano del reggae e del rap. L’importazione di questi modelli musicali non fu meramente passiva né di maniera, e innestandosi sul background musicale del punk, della musica popolare e del cantautorato di protesta diede vita a un movimento musicale ibrido ma ben delineato e unico nel panorama europeo.
Tale appropriazione estetico-culturale avvenne grazie a processi di natura tecnologica, favoriti dalla diffusione delle apparecchiature musicali a prezzi accessibili. I brani musicali vengono infatti prodotti con computer, campionatori e tramite il lavoro dei dj, secondo un’ottica di appropriazione e riutilizzo di materiali musicali preesistenti. Questa prassi, basata sulla logica del cut-up e della citazione, permetterà anche a individui non musicalmente alfabetizzati di realizzare brani e album autoprodotti, distribuiti attraverso la rete dei centri sociali e delle radio di movimento.
Benché il fenomeno delle posse abbia avuto una certa risonanza, studi di carattere musicologico a esso dedicati sono rari, risulta quindi difficile la corretta comprensione di un processo musicale ricco di implicazioni. L’obiettivo principale di questo intervento sarà l’evidenziare i legami tra musica, politica e tecnologia di questa stagione della vita musicale e sociale italiana – ancora poco conosciuta – e di metterli in relazione con quanto accadeva nel nostro paese.
Lo stesso termine “posse” non è definito in maniera chiara e univoca. Secondo il dizionario di inglese contemporaneo Longman la “posse” è un «gruppo di uomini radunati da uno sceriffo per dare la caccia a un criminale specifico o per mantenere l’ordine». Da tale definizione è facile far discendere, per traslazione, l’idea di un “gruppo di fuoco”, di individui che decidono di occuparsi in prima persona di problemi urgenti e di grave entità. Gruppo di fuoco – quindi – ma anche gruppo “irregolare”, in qualche modo auto-legittimato e capace di agire tanto all’interno del lecito quanto dell’illecito.
Una posse, prima ancora che una formazione musicale, rappresenta un collettivo di militanti, che si pone come scopo prioritario la difesa – anche energica – del proprio territorio, sebbene le prime istanze di matrice isolazionista verranno in seguito accantonate in favore di uno sviluppo proiettato massicciamente, e con successo, verso l’esterno e il mercato discografico. Per comprendere in maniera efficace il fenomeno delle posse, non è possibile prescindere dai centri sociali, in quanto ricettori privilegiati delle subculture giovanili.
Il radicamento sul territorio, scopo principale di ogni occupazione a scopo politico, fungerà da catalizzatore non solo per rivendicazioni di tipo sociale ed economico ma anche artistico e musicale. La nascita dei primi centri sociali, a Milano e nel nord Italia, si può far risalire alla metà degli anni Settanta con le esperienze del Leoncavallo e dei Circoli del proletariato giovanile, tesi all’apertura di spazi in cui esperire una socialità espressa secondo tempi e modalità differenti da quelle offerte dal tessuto metropolitano dei grandi centri industriali.
Questo aspetto in particolare si rivelerà determinante nell’instaurazione di rapporto di mutua assistenza tra centri sociali e periferia urbana: laddove il centro sociale offre esperienze e servizi assenti e il quartiere disagiato fornisce il materiale umano, che si avvicina al centro sociale e ne rinforza le fila.
In questo rapporto dialettico la musica, come è facile immaginare, svolge un ruolo di primo piano, agendo come “calamita” sociale in grado di avvicinare i gruppi del proletariato non politicizzato con un linguaggio che coniuga militanza ed esperienza estetica. Tuttavia, il paesaggio sonoro dei primi centri sociali non è costituito dal rap, bensì dal movimento punk, strutturato intorno all’idea-forza del rifiuto in toto della società e dei suoi meccanismi. La corrente punk dei centri sociali individuava come propri destinatari i “marginali”: extracomunitari, disoccupati, proletari, sottoproletari e studenti. A questo stesso pubblico si rivolgeranno le posse durante la loro breve parabola dalla la fine degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta.
Se, come possiamo vedere, le posse sono state un fenomeno ristretto dal punto di vista temporale, siamo invece in presenza di un fenomeno estremamente pervasivo dal punto di vista geografico. Secondo lo slogan “ogni centro sociale la sua posse” – che ricorda lo slogan dei Cantacronache “ad ogni morto la sua canzone” – la crescita esponenziale delle occupazioni avanza di pari passo la distribuzione di gruppi musicali su tutto il territorio nazionale. Spesso i dj e i rapper delle posse sono gli stessi occupanti dei centri sociali, dei quali rappresentano una sorta di “ala musicale”.
È bene porre l’accento su questo aspetto, che rappresenta un unicum nel panorama internazionale. Come messo in risalto dagli studi di George Lapassade e Philippe Rousselot, raccolti nel volume Rap il furore del dire (2008), il rap italiano delle origini presenta numerosi aspetti di unicità non tanto per motivi di carattere musicale, quanto per ragioni sociali e politiche. Quello che lo studioso francese individua come “modello mercantile” del mondo musicale è completamente escluso dall’orizzonte del neonato movimento delle posse, il quale si pone in aperto contrasto con l’idea di “professionalizzazione” del musicista a prescindere dalle condizioni che a esso saranno accordate.
Secondo Lapassade tale atteggiamento è diretta conseguenza di motivazioni culturali e storiche tipicamente italiane, poiché:
l’Italia non ha un passato coloniale. Non vi è dunque un’installazione massiccia di lavoratori venuti dall’Africa. In Italia la questione è recente, non c’è dunque una seconda generazione, cosa che contribuisce a determinare un’importante differenza rispetto alla Francia dove l’hip hop si è sviluppato essenzialmente tra i giovani nati da questa generazione (africana, maghrebina) l’hip hop contestatario d’Italia è prodotto dai giovani italiani negli ambienti universitari con i loro prolungamenti politici (Lapassade e Rousselot 2008, pp. 177-178).
Le posse italiane non presentano il melting pot che caratterizza la musica afroamericana, per questo motivo siamo in presenza di una produzione musicale particolarmente omogenea e unidirezionale. Se da un lato questo aspetto ha impoverito la proposta artistica, dall’altro ha contribuito a solidificare un movimento coeso e coerente. Tale coerenza si rispecchia in tutta la produzione testuale del rap italiano del periodo, che si sviluppava simultaneamente alle rivendicazioni dei centri sociali e del movimento universitario della “Pantera”. Da questo orizzonte di lotte e di antagonismo trae origine la differenza fondamentale tra le posse e i gruppi rap sviluppatisi altrove: l’autolegittimazione. In continuità con le istanze dell’Autonomia, il movimento del ’77 e l’estetica punk del Do It Yourself, i rapper italiani non ricercano il proprio riconoscimento da parte di istituzioni, mass media e pubblico di massa.
Da questo punto di vista il centro sociale e la posse si autoalimentano in un circolo continuo, nel quale il rapper fornisce visibilità e appeal al centro sociale e il centro sociale garantisce supporto logistico e di pubblico.
Tuttavia, i valori e le tematiche del rap di matrice statunitense non vengono rigettati tout court. Un esempio molto significativo in questo senso è il concetto di “ghetto”. Il ruolo dell’emarginato, che in altri orizzonti culturali spetta all’immigrato di seconda o terza generazione, in Italia verrà assunto da un’altra categoria: lo studente universitario. Questa assimilazione, tuttavia, non si estrinseca nel solco della mera imitazione o dell’adozione acritica, al contrario contribuisce a delineare un’altra particolarità del rap italiano. Il ghetto, nella concezione delle posse, non rappresenta esclusivamente il quartiere disagiato, bensì qualsiasi condizione di subalternità o di sfruttamento. Frasi come «ghetto, può essere un concetto, può essere restare tra quattro mura e un tetto»,[1] sono indicatori di come la questione sia stata posta in maniera centrale.
Lo studente universitario viene interpretato come l’“emarginato”, l’elemento estraneo al corpo metropolitano e che può riunirsi con chi è nella sua stessa condizione, alla ricerca di spazi e di servizi che spesso non può permettersi: una sorta di “emarginato per elezione”. Tuttavia, a differenza dell’emarginato “per nascita”, lo studente può fare affidamento su una disposizione di tempo, risorse ed energie che non ne fanno la figura subalterna di un sistema ostile o del mercato musicale, bensì l’oppositore cosciente. La particolarità del movimento delle posse è la proposizione di modelli alternativi, quali il reddito di cittadinanza, l’auto-organizzazione, l’antiamericanismo laddove i rapper generalmente cercano riscatto nel diventare figure di spicco del music business.
Per tali ragioni il rap italiano dei primi anni Novanta è più autocosciente e di conseguenza disposto a confrontarsi dialogare, con il mondo della tradizione popolare – come nel celebre caso dei Sud Sound System e del tarantamuffin – e con il mondo accademico come nel caso degli studi di Lapassade e Pietro Fumarola che si concludono con le seguenti acquisizioni: il rap è una tecnica popolare in Italia, contestatario e alla portata di tutti; è “italiano”, basato su specifiche sue proprie, fatte solo dai bianchi italiani; il tasso di innovazione è maggiore, grazie al rifiuto degli stereotipi americani; non c’è ossessione per il successo.
Le prime due posse a raggiungere una certa notorietà, tra 1990 e il 1991, sono l’Onda Rossa Posse di Roma e l’Isola Posse All-Stars di Bologna, gravitanti intorno all’area dell’autonomia romana e del centro sociale L’Isola nel Kantiere. Si tratta dei primi due dischi di rap interamente realizzati in italiano e che incontrarono un buon successo nel pubblico underground, con circa 10.000 copie vendute. Dal punto di vista discografico le posse agiscono in un regime di totale indipendenza dal punto di vista produttivo e distributivo, appoggiandosi al circuito dei centri sociali e solo in una seconda fase, a case discografiche ufficiali.
Nei primi anni Novanta, basandosi sul know how stratificatosi grazie alla scena punk, vengono fondate numerose etichette, tutte di breve durata ma dall’intensa attività.
Per quanto riguarda le modalità creative le posse invece non si discostano di molto dai metodi dal rap più generalista, con un dj addetto alla musica e uno o più mc al microfono. La diffusione di tecnologie a costo relativamente contenuto ha svolto una notevole funzione nell’avvicinare alla pratica musicale individui senza formazione di base. La prassi musicale del djing si basa su tecniche atte a inframezzare i testi con lo scratch, saltando da una base all’altra con il cut, e procurando supporti musicali e versioni strumentali, all’epoca di difficile reperimento.
Non tutte le prime posse non hanno accesso ai mezzi di produzione musicale quali campionatore e sequencer per cui in questa fase ci si affida soprattutto a musiche già composte, come nel caso dell’Onda Rossa Posse.
Cantare su basi prodotte da altri musicisti suscita una serie di pratiche che impattano sui modi di scrittura i quali devono adattarsi a una musica già esistente, come racconta ’O Zulu, leader e voce dei 99 Posse:
Tu prendevi un pezzo e lo riadattavi. Ho beccato tutti i dischi che avevo a casa, verso le sei del mattino ho trovato il disco che andava bene, e poi sulla base di questo disco c’erano delle parti dove se ne andava via la ritmica, dove rientrava, per cui tutto il testo l’ho scritto per arrangiarlo per farlo entrare bene negli stacchi di quella base (Plastino 1996, p.86).
Il diritto d’autore e la paternità musicale rappresentano problematiche del tutto estranee tanto per motivi etico-politici quanto pratici, rappresentando i centri sociali un mondo piuttosto separato dal contesto musicale ufficiale. Tale approccio si modificherà con il tempo, ma senza scomparire del tutto, come quando alla metà degli anni Novanta alcuni protagonisti del movimento delle posse accetteranno di lavorare con alcune major discografiche, ma solo dopo aver ricevuto garanzia di indipendenza e autonomia. È il caso del rapper abruzzese Lou X, come testimonia il suo produttore Carlo Martelli:
Il metodo di lavoro era molto semplice, loro avrebbero realizzato l’album, noi l’avremmo pagato e promosso senza mettere il becco su nulla. Non sapevo nemmeno in quale studio stessero registrando, la comunicazione si limitava a qualche telefonata che mi lasciva abbastanza frustrato. Ogni mia domanda veniva elusa (Martelli 2014, p. 61).
Anche in questo caso il ricorso al campionamento e alla citazione è spinto all’estremo, tanto da obbligare l’etichetta BMG a non contrattare i diritti troppo onerosi – come nel caso dei Pink Floyd – e far uscire il disco sperando di non incappare in questioni legali.
L’immediato riscontro di pubblico spinge molti operatori del settore a cercare le giuste strategie per penetrare il mondo dei centri sociali e contrattualizzare i musicisti più interessanti, contrariamente a quanto succedeva all’estero, laddove i discografici si associavano a musicisti dai contenuti più digeribili e meno politicizzati. Le posse trovano spazio in compilation, stampa musicale, cinema e televisione. Tale repentina sovraesposizione ha impattato con forza su un mondo che Goffredo Fofi ha descritto, nel 1992, come un «ibrido delicato e in fase di delicata affermazione» (Campo 1996, p. 77). Le posse cercano infatti un possibile equilibrio tra la possibilità di raggiungere un pubblico più vasto e il timore d venire assorbiti dal mercato musicale. Sempre Fofi mette in evidenza come in determinati casi le istanze di ribellione vengano portate avanti in modo più esteriore che di sostanza, talvolta da formazioni musicali messe in piedi in tutta fretta per poter godere del momento favorevole.
È infatti al principio degli anni Novanta che risalgono i primi festival interamente dedicati alle posse, talvolta con patrocini di enti pubblici e major discografiche, e rivolti a un pubblico numeroso, come nel caso del festival “Universi posse”, tenutosi nello stadio Olimpico davanti a più di mezzo milione di persone e conclusosi con l’occupazione del palco a opera di rapper in disaccordo con la sponsorizzazione della manifestazione da parte di un ente politico vicino all’area craxiana. In questa fase è estremamente complicato tracciare una geografia dei luoghi e delle formazioni musicali che sorgono e terminano nel giro di pochi mesi. Al di là dei centri sociali più celebri come Il forte prenestino, L’Officina 99 e l’Isola nel Kantiere, le pubblicazioni dell’epoca sono spesso imprecise e caratterizzate da una scarsa conoscenza del fenomeno.
Non è infatti inusuale riscontrare confusioni di genere tra hip hop, rap, reggae, ska e raggamuffin e di appartenenza a questo o quel centro sociale. L’unico tentativo di censimento degli spazi occupati – e dei musicisti che li animano – è a cura di Alba Solaro, sulle pagine del volume Posse italiane (1992). Un punto sul quale però tutti gli osservatori del fenomeno concordano è la volontà di abbattere le tradizionali barriere tra pubblico e musicisti. A questo scopo vengono escogitate le cosiddette serate a “microfono rotante”, nelle quali – oltre a non esserci palcoscenico – tutti i partecipanti alla serata, a prescindere dal proprio ruolo, possono prendere il microfono e cimentarsi sulla base.
Questa stagione della musica italiana ha rappresentato un momento di particolare interesse, fondato sull’incontro tra impegno politico, attività musicale e utilizzo della tecnologia a scopo creativo. L’importanza, dal punto di vista della ricerca, di fenomeni di questa tipologia è la consapevolezza che sempre di più è necessario affidarsi a metodologie interdisciplinari, allo scopo di rendere conto della multidimensionalità dell’esperienza musicale.
Bibliografia
Campo, Alberto. 1996. Nuovo? Rock?! Italiano! Una storia 1980 – 1996. Giunti, Firenze.
Lapassade, George e Rousselot Philippe. 2008. Rap il furore di dire. Bepress, Lecce.
Martelli, Carlo. 2014. «RPM Lou X», in Blow Up, n. 190.
Plastino, Goffredo. 1996. Mappa delle voci. Rap raggamuffin e tradizione in Italia. Meltemi, Roma.
Solaro, Alba. 1992. «Il cerchio e la saetta: centri sociali occupati in Italia», in Carlo Branzaglia, Pierfrancesco Pacoda e Alba Solaro, Posse italiane: centri sociali, underground musicale e cultura giovanile degli anni ‘90 in Italia. Editoriale Tosca, Firenze, pp. 11-71.
Note
[1] Presente nel brano “La musica” della rapper Carrie D, incluso nell’album La rapadopa di Dj Gruff.