Simone Garino
simone.garino@gmail.com
Abstract
L’articolo prende in esame un successo televisivo degli anni Ottanta e Novanta, Striscia la Notizia, focalizzando l’analisi sulla sigla musicale, elemento solitamente trascurato dagli studi esistenti sul tema. Al contrario, attraverso un’applicazione originale del metodo musematico di Philip Tagg e della teoria dell’articolazione di Richard Middleton, è possibile non soltanto evidenziare aspetti di significazione di alcune delle principali sigle musicali utilizzate, ma – ancora a partire dall’analisi delle canzoni – fornire elementi di spiegazione del successo del programma stesso e della figura «mostruosa» del Gabibbo, in stretta – e inedita – relazione con un altro “mostruoso” fenomeno politico emergente in quegli anni: la «scesa in campo» di Silvio Berlusconi.
Striscia la Notizia è forse il più clamoroso successo televisivo non solo degli anni Ottanta e Novanta, ma della storia della televisione italiana. Nato nel 1988, è l’unico caso di show televisivo, almeno in Italia, che vada in onda da oltre venticinque anni, in una fascia oraria che proprio la trasmissione ha contribuito a far nascere. Qualcuno (Panarari 2010, p. 70) ha fatto addirittura notare come «Striscia, nella sua diffusione ecumenica, si avvii ormai ad essere un’erede tv della Balena Bianca (buona per tutti e per tutte le stagioni come lo era la DC)».
In questo quarto di secolo abbondante di esistenza, su Striscia sono stati, ça va sans dire, versati fiumi d’inchiostro, anche nel mondo accademico. Antonio Ricci, nel 1999, è stato invitato alla Sorbona per un ciclo di tre seminari (il primo dei quali era intitolato «Perché il Presidente del consiglio scrive a un pupazzo di peluche?»). Più recentemente, all’Università Bocconi è stato organizzato un convegno – finanziato da RTI, società del gruppo Mediaset – dal titolo «La rilevanza sociale, culturale ed economica di Striscia la Notizia».
Tuttavia, sembra quasi superfluo ricordare come la maggior parte degli interventi provenienti dal mondo accademico italiano riguardo alla trasmissione siano in realtà critiche piuttosto feroci. Una delle più celebri, quella di Aldo Grasso,[1] è stata riportata dallo stesso Ricci nel suo volume Striscia la Tivù del 1998, edito da Einaudi (p. 167-169):
Per me il Gabibbo rappresenta solo un suo personale cedimento culturale, una specie di regressione infantile molto pericolosa. Quando sento parlare il Gabibbo, quando sento pronunciare parole come “anguscia”, “baletta”, “besugo” […] mi si accappona la pelle […] Quello che cerco di contestarle è proprio l’operazione di riciclaggio di questo pattume lessicale […] lei ha preso questo cascame terminologico, questa spazzatura linguistica, e l’ha reintrodotta furbescamente in circolazione. Non vorrei che adesso ci spiegasse anche che questa trovata di successo è una sua tipica operazione situazionista, una mazzata al cuore della società dello spettacolo, una sovversione mascherata da gioco innocente di bambini […] Vorrei che ci dicesse che il Gabibbo è stato solo un’accorta operazione commerciale, che farne un eversivo da Mago Zurlì è solo un amo per noi spettatori ingenui.
Più di recente è comparso un altro volume – edito, quando si dice il caso, anch’esso da Einaudi – scritto dallo studioso del linguaggio politico Massimiliano Panarari, e intitolato L’egemonia sottoculturale. Da Gramsci al gossip. Un capitolo è interamente dedicato a Ricci e al suo cosiddetto postmoderno superpop (2010, p. 62) «a uso delle élite e a consumo […] delle masse, un magnete capace di attrarle e ammaliarle e che, quindi, deve farsi interamente e perfettamente capire, pena l’inefficacia».
Panarari (2010, p. 61) descrive Striscia come una trasmissione che nasce come «parodia del sistema di informazione […] per poi presentarsi essa stessa come “difensore civico” e raddrizzatrice dei soprusi, in un tripudio di gag comiche, rumori registrati e giovani donne discinte», e sottolineando come «siamo in realtà in un territorio molto lontano: quello dell’appropriazione propagandistica delle parole e dello svuotamento del loro significato, una pratica decisamente neoliberale» (Ivi, p. 68) .
I presupposti del discorso di Panarari sono comunque in gran parte assimilabili a quelli di Grasso,[2] come testimonia una recente intervista:
Partendo dall’idea di egemonia culturale di Gramsci, vedendo i prodotti della televisione, del gossip, dei rotocalchi, della commistione tra pubblico e privato, del pettegolezzo di oggi, possiamo dire che c’è un’egemonia sì culturale, ma di livello molto basso, che potremmo ribattezzare “egemonia della sottocultura”.[3]
“Spazzatura”, “pattume”, “sottocultura”: ciò che accomuna questo tipo di critiche è una sorta di aprioristica derubricazione dell’oggetto di studio, e una supposta superiorità ideologico/culturale di una non meglio identificata “cultura alta” rispetto alla “cultura pop” (atteggiamento che, peraltro, è ben noto agli studiosi di popular music italiani). Insomma, «L’avanguardia alternativa non fa sconti comitiva», come diceva il compianto Roberto “Freak” Antoni. Ricci ha avuto tutto sommato buon gioco a rispedire questo tipo di critica[4] al mittente, significativamente intitolando «Rumenta» una delle sigle del programma e includendo, come detto, la lettera di Grasso nel suo libro, insieme alla sua risposta, intitolata «Meglio un pupazzo illetterato che un intellettuale besugo», e firmata proprio come “Il Gabibbo”[5] (Ricci 1998, p. 168): «se lei va a dire a Ricci che ha toccato il punto più basso, lui gongola, perché è convinto che il più alto e il più basso siano la stessa cosa, dipende dal punto di vista».
Tuttavia, più che altro stupisce (o forse, per la verità, non stupisce affatto) l’assenza in entrambe le critiche – con la parziale, e comunque marginale, eccezione di Grasso[6] – di ogni riferimento a un ingrediente fondamentale di ogni show televisivo che si rispetti: la sigla musicale. Entrambi gli autori si sono soprattutto soffermati sulla comunicazione verbale e sugli aspetti sociolinguistici. Eppure, come ricorda Philip Tagg (2003, p. 7):
Words and numbers may be the symbolic systems privileged in public education, but it is the audiovisual media […] that carry the most pervasive and persuasive messages influencing which political candidates are elected and which governments are toppled, not to mention which commodities are sold, lifestyles led, fashions followed, myths maintained, and ideologies embraced. For most of its programming time, television, still the most pervasive of audiovisual media, favours non-verbal aspects of sight and sound, the latter incorporating no mean amount of music.
La sigla di Striscia la Notizia
Le ventisei sigle di Striscia la Notizia, una per ogni edizione a partire dalla stagione 1990/1991,[7] sono state tutte interpretate dal volto, o meglio, dalla maschera più nota del programma: il Gabibbo. Il suo creatore/alter ego, Ricci, ne scrive in questi termini (1998, pp. 58-60):
La tivù fabbrica mostri. Ciò che conta è essere mostrato, apparire […] il mostro per eccellenza è il Gabibbo. Esiste perché si mostra e del mostro ha tutte le caratteristiche. Lui è la Televisione. È un monito, uno spauracchio. Io lo odio. Mi fa schifo, ma per il mio noto gusto sadomaso mi piace. È l’uomo che non esiste, che dice parole non sue. Diventa più inquietante quanto più e incredibile. In Parlamento, nelle ultime elezioni per il Presidente della Repubblica, ha preso quindici voti […] Il Gabibbo è venuto fuori nel momento degli esternatori: era l’ottobre del ’90. In giro c’erano Giuliano Ferrara, Sgarbi, Funari, Santoro e Cossiga. Questi nuovi mostri avevano trovato urlando la scorciatoia per entrare nelle case dei telespettatori […] Chi poteva rappresentarli meglio, questi populisti catodici, di un pupazzone rosso che, con gli occhi fuori dalla testa, bercia: “Ti spacco la faccia!” […] Migliaia di cittadini preferiscono rivolgersi al “vendicatore rosso” piuttosto che alle Istituzioni. Tutto questo è giustamente inquietante. Brecht diceva: «Beato il popolo che non ha bisogno di eroi». Ma noi non riusciamo addirittura a fare a meno dei pupazzi.
Ricci ha affermato in diverse interviste di essere la voce[8] “musicale” del Gabibbo.
Mi tocca [cantare]. La voce storica, Lorenzo Beccati, è stonato da far paura. Io cantavo, suonavo il banjo, sono stato anche sul palco a Sanremo con Sabina Guzzanti.[9]
Famiglia Cristiana: Vogliamo rivelare che quando il Gabibbo canta la voce è la tua?
Antonio Ricci: Se insisti ti dico che è vero. Mi sono tolto la soddisfazione di battere i campioni del pop e del rock nella vendita dei dischi senza nemmeno apparire.[10]
L’esordio musicale del pupazzo rosso, «Ti spacco la faccia», sigla del programma nella stagione 1990-1991, fu in effetti un vero e proprio caso discografico.
Il singolo, pubblicato alla fine del 1990, fu stampato in formato 12”, il più utilizzato dai disc-jockey nei circuiti del clubbing. Non si trattava di una scelta casuale.
Ascoltando le prime battute del brano, notiamo un campionamento di batteria elettronica (preannunciato dalla voce del Gabibbo: «Belandi ragassi, che ritmo!») decisamente familiare, almeno per chi ha vissuto i primi anni Novanta. Si tratta dello stesso campione impiegato, esattamente un anno prima, in un brano notissimo, non soltanto ai frequentatori abituali delle discoteche.[11] Si tratta di «The Power», degli Snap!, duo formato a Francoforte dai produttori Luca Anzillotti e Michael Münzing, probabilmente il primo grande successo commerciale della cosiddetta Euro-Dance, con oltre un milione di copie vendute nei soli Stati Uniti.
Torniamo a «Ti spacco la faccia»: dopo qualche battuta il campione viene coperto da un riff suonato dai sintetizzatori, e viene lasciato spazio all’ingresso vocale vero e proprio di Ricci/Gabibbo.
Forte di una diffusione televisiva quotidiana in prima serata, in Italia, la “copia” vendette più dell’originale. «The Power» raggiunse soltanto il quarto posto in classifica nel 1990. «Ti spacco la faccia», rimase nella classifica dei singoli più venduti in Italia per oltre cinque mesi, mancando di un soffio la prima posizione assoluta.[12]
Un procedimento analogo, ancora più evidente, avviene con una sigla successiva, «Hai capito Cocorito?», della stagione 1993-94. L’iniziale riff di sintetizzatori è palesemente ripreso da un’altra hit degli Snap!, «Rhythm is a Dancer», grande successo estivo del 1992, soprattutto in Italia, dove rimase al primo posto delle classifiche per quattordici settimane.
La storia di questo riff meriterebbe una trattazione a parte: gli Snap! lo ripresero, dimezzandone la velocità ma mantenendo il pitch, da un brano del 1984, «Automan» dei Newcleus, collettivo hip-hop newyorkese nato alla fine degli anni Settanta. Pochi mesi dopo l’uscita di «Rhythm is a Dancer», furono gli Snap a essere a loro volta “scippati”. Un altro produttore originario di Francoforte, Torsten Fenlau, si servì dello stesso riff per la sua «Mr. Vain», uscita sotto il moniker di Culture Beat. Il singolo vendette dieci milioni di copie in tutto il mondo, raggiungendo il numero uno delle classifiche di vendita in undici paesi, tra cui l’Italia, esattamente un anno dopo «Rhythm Is a Dancer», nel settembre del 1993.
«Hai capito Cocorito» fu lanciata, guarda caso, poche settimane dopo. Dopo l’ingresso del pupazzo («Ragassi, è morto il libero pensiero!»), sullo sfondo creato dai sintetizzatori il Gabibbo lancia una specie di improvvisazione scat in call and response con un coro femminile (le veline? Il pubblico da casa? O forse il pubblico e le veline insieme? Torneremo più tardi su queste domande), alternandolo con lo hook del brano, ovvero il titolo della sigla.
Una frase tratta da Studiare la Popular Music di Richard Middleton (2001, p. 197) sembra scritta apposta per descrivere questo brano.
Le frasi ripetute e le strutture di riff aiutano a creare una struttura di sfondo sulla quale si possono sviluppare le variazioni; esse inoltre accolgono e accomodano un pubblico forse eterogeneo, forse distratto.[13]
Il pubblico viene quindi “accolto” e “accomodato” in un ambiente familiare, in qualcosa che risuona già, in qualche modo, nelle sue orecchie, nella sua memoria. Siamo di fronte a ciò che Philip Tagg chiama «indicatore di stile».[14] Forse siamo addirittura a un livello successivo, vista la specificità e la riconoscibilità della (doppia) citazione, che riconduce immediatamente il pubblico, in primo luogo (ma non solo) quello giovanile, alla Euro-Dance.
Il riff è peraltro costruito – non solo in «Hai capito Cocorito»? ma in tutti e quattro i casi citati – sul modo eolio di La, o per meglio dire sul “pendolo eolio”, diffusamente impiegato nella popular music (con una crescente diffusione in particolare a partire dalla metà degli anni Settanta)[15] e analizzato in un noto saggio dallo studioso svedese Alf Bjørnberg (1984, pp. 5-6):
This harmonic language merely carries with it a general aura of musical novelty, having been taken over from the “more contemporary” youth-oriented rock music’ […] it may be suggested that the use of aeolian harmony signifies a change in the way life in contemporary Western industrialized societies is experienced, a change affecting large and heterogeneous social groups.
Proprio adducendo come esempio l’aura di giovanilismo e ribellione propria di Elvis Presley e più in generale del rock’n’roll negli anni Cinquanta, Richard Middleton (2001, p. 27) introduce il concetto, ripreso da Gramsci, di articolazione:
Gli elementi culturali […] non sono direttamente legati a fattori specifici economicamente determinati come la classe sociale, essi sono tuttavia determinati, in definitiva, da quei fattori attraverso l’azione di principi regolatori che sono legati alla classe sociale. Questi principi combinano elementi preesistenti in nuovi schemi e vi aggiungono nuove connotazioni.
«Hai capito Cocorito? e «Ti spacco la faccia» sono due esempi di come un’unità di significazione musicale (un musema per utilizzare un’espressione di Philip Tagg)[16] possa essere oggetto di articolazione, o di bricolage nel senso dato da Lévi-Strauss (cit. in Middleton 2001, p. 223), cioè «riordinamento e ricontestualizzazione di oggetti al fine di comunicare significati nuovi […] nel quale gli oggetti utilizzati sono già collegati a significati consolidati».
Il genere Euro-Dance era particolarmente adatto a questo tipo di operazione di bricolage per alcune sue caratteristiche strutturali. Assenza di un frontman (o di una frontwoman) propriamente detto, dal momento che i vocalist erano poco più che ospiti fissi; relativo anonimato, spesso volontario, da parte dei produttori;[17] infine, la diffusa pratica di appropriazione di campioni provenienti da altri brani anche a brevissima distanza di uscita, di cui proprio il caso «Rhythm is a Dancer» / «Mr. Vain» è esemplare.
Dietro al Gabibbo, inteso come interprete di canzoni, non c’è solo Ricci. In base ai depositi SIAE, scopriamo come tutti gli autori storici di Striscia (Ricci, Beccati, Max Greggio e Gennaro Ventimiglia) siano accreditati come autori dei testi delle sigle.
Gli autori delle musiche invece, almeno nei primi anni del programma (fino al 1995),[18] sono tre: il produttore e arrangiatore Mario Natale, il bassista e tecnico del suono Silvio Melloni, e il disc-jockey e produttore Roberto Turatti. Con un passato da batterista punk nei Decibel di Enrico Ruggeri, agli albori degli anni Ottanta si era reinventato come prima come selecter nel circuito delle discoteche milanesi (un mondo, per sua stessa ammissione, un tempo disprezzato) e poi anche come produttore, oltre che di centinaia brani dance, per Sabrina Salerno, Francesco Salvi e Den Harrow. In una recente intervista Turatti è tornato sul lavoro svolto per i brani del Gabibbo:
La gente vuole e vorrà sempre ballare… Anche gli artisti più famosi, a volte, si fanno produrre da DJ… come mai? Certo a volte non bisogna prendersi troppo sul serio. Quando faccio le musiche per il Gabibbo, so cosa sto componendo ed a che pubblico mi sto rivolgendo. Ad esempio “Cu-cu cultura” (sigla del programma tv Cultura moderna, scritta da Roberto N.d.R) funziona perché quella è la sua finalità.[19]
D’altronde, anche lo stesso Antonio Ricci (1998, p. 66) ha dichiarato apertamente il suo intento:
Per me non deve esistere “il nostro pubblico” […] Siamo noi che dobbiamo cercarci il pubblico, tutto il pubblico, porta a porta, citofono per citofono, come i Testimoni di Geova.[20]
Intenti confermati in un’intervista a Panorama del 1992 (cit. in Panarari 2010, pp. 60-61):
Non mi frega niente di fare della satira che piaccia a quelli come me, a quelli intelligenti e colti. A me interessa di tentare di catturare l’attenzione della signora Pina, alle otto e trenta di sera.
La signora Pina. Dove abbiamo già sentito questo nome?
Un’altra canzone del Gabibbo può suggerirci la risposta. «My name is Gabibbo», sigla di Striscia nella stagione 1991-92, ovvero la seconda interpretata dal pupazzo, è una sorta di pastiche che, soltanto nei primi venti secondi, presenta numerosi stereotipi del rock and roll anni Cinquanta: il glissando discendente di pianoforte à la Jerry Lee Lewis; il pattern di batteria tipico del twist (il cui passo principale veniva eseguito, all’ingresso in studio del Gabibbo, dalle veline e dai conduttori, nella fattispecie Claudio Bisio e Gianni Fantoni); il primo riff vocale cantato da un coro femminile, una sorta di parafrasi del notissimo intro di «Speedy Gonzales»,[21] e soprattutto il secondo riff vocale, sempre eseguito dal coro.
Anche in questo caso, forse, la storia dello «uacciu uari uari» meriterebbe una trattazione separata. Le origini del riff vocale in questione, e in particolare dell’uso di queste sillabe, si perdono con ogni probabilità nei meandri della storia dello scat jazzistico. Tuttavia, possiamo risalire abbastanza facilmente a quella che potrebbe essere la prima versione in cui un coro esegue una frase molto simile in ostinato, come background. Si tratta di «Little Darlin’», scritta da Maurice Williams per il suo gruppo doo-wop The Gladiolas (più tardi ribattezzati The Zodiacs). Il singolo, pubblicato nel gennaio del 1957, fu un discreto successo nella R’n’B Chart di Billboard, raggiungendone l’undicesimo posto, ma mancando il crossing over nella classifica generale, la Top 40. Un mese dopo, la canzone fu reincisa da un gruppo vocale di bianchi canadesi, The Diamonds, e divenne il terzo singolo più venduto dell’anno negli Stati Uniti. «Little Darlin’» divenne un vero e proprio classico, con numerose cover: oltre a Elvis, ai Monkees, ai Four Seasons e a una versione parodistica di una giovane Joan Baez, fu eseguita a Woodstock nel 1969 dagli Sha-Na-Na. Qualche anno più tardi fu inserita nella colonna sonora del celebre film American Graffiti di George Lucas, uscito nella seconda metà del 1973.
A distanza di pochi mesi, nell’inverno del 1974, il gruppo inglese The Rubettes impiegò un riff vocale molto simile nel suo primo grande successo, «Sugar Baby Love». Il brano vendette tre milioni di copie in tutto il mondo, e in Italia fu reinterpretato con successo, con il titolo di «Dolce Angelo», da Mino Reitano. È qui che le sillabe originarie, «bop-shoo-waddy», vengono trasformate per semplificare la pronuncia, in «uacciu-uari».
Passano pochi mesi, è il 1975. Lo stesso riff viene impiegato nella colonna sonora di Fantozzi, firmata da Bixio, Vinci e Tempera. Lo stesso che possiamo ascoltare all’inizio di «My Name Is Gabibbo». L’immagine dell’italiano medio magistralmente dipinta da Villaggio nel personaggio del ragionier Ugo, è d’altro canto l’identikit dello spettatore di Striscia la Notizia, almeno secondo Antonio Ricci: la sua citazione della “Signora Pina” è in tal senso rivelatrice.[22]
In questo caso, ciò che, almeno fino a «Sugar Baby Love» era (ed è ancora nel mondo anglosassone) un “indicatore di stile” del doo-wop, perde questa funzione per assumere, con un processo di articolazione, un diverso significato. Lo “uacciu-uari-uari” diviene un indicatore del destinatario del messaggio, in questo caso non tanto il giovane discotecaro, come negli esempi precedenti: è Fantozzi, è la Signora Pina. L’origine del musema in questione forse sfugge alla competenza “conscia” dello spettatore, ma la sua presenza lo accoglie nel “già sentito”, e lo prepara all’ascolto delle strofe cantate dal Gabibbo: come accade in «Hai capito Cocorito?» e in «Ti spacco la faccia», l’elemento musicale oggetto di articolazione è infatti posto, non a caso, all’inizio del brano.
Dal mezzo al fine
Tuttavia, manca ancora un tassello al mosaico. Forse il più importante. Se il mezzo è questa azione di bricolage, qual è il fine? In altre parole, che cosa vuole comunicare il Gabibbo al suo pubblico? È forse superfluo ricordare i servizi antispreco del vendicatore rosso, inviato di volta in volta nelle ormai proverbiali spiagge sporche o nel cantiere abbandonato di turno. Come è superfluo ricordare i quindici voti presi alle elezioni del Presidente della Repubblica nel 1992, o la corrispondenza tra il primo ministro D’Alema con Ricci e Caldarelli, o ancora la candidatura del pupazzo alle elezioni suppletive del 1997, nel seggio del Mugello.[23]
Ancora una volta, è una canzone a dirci molto di più. Basterebbe forse soltanto citare il titolo, «Le Tasse», e l’anno, il 1992. L’anno del Governo Amato I. Una manovra finanziaria da 93 mila miliardi di lire, la più importante dal dopoguerra.[24]
Il testo potrebbe essere considerato una specie di parafrasi della beatlesiana «Taxman»:[25] entrambe sono basate sulla figura retorica dell’iperbole, con un elenco di oggetti e azioni regolarmente tassate. In effetti i “favolosi anni Sessanta” – epoca di contestazione per eccellenza – sono citati attraverso il doppio riferimento, nella consueta “intro parlata”, a una delle band e uno dei film di culto dell’epoca (rispettivamente i Blood Sweat and Tears e Fragole e Sangue).
Tuttavia, la base ci riporta chiaramente a un altro mondo musicale, quello del raggamuffin giamaicano. La cosiddetta digital era del reggae, iniziata sull’isola negli anni Ottanta in un periodo di grande rinnovamento, anche politico,[26] aveva portato a una riscoperta internazionale della musica giamaicana attraverso figure come Shabba Ranks, Ini Kamoze, Cutty Ranks e Burro Banton. La vocalità di quest’ultimo, in particolare, presenta una notevole somiglianza con quella di Ricci/Gabibbo. Burro Banton aveva tra l’altro raggiunto l’apice del successo internazionale (con il singolo «Boom Wah Dis»)[27] proprio nell’anno di “nascita” del Gabibbo, il 1990.
Possibile che si tratti di una semplice coincidenza, come pure può esserlo la regolare presenza, in Burro Banton come negli altri interpreti del genere, delle intro parlate. Tuttavia, a un produttore attento alle tendenze d’oltralpe come Turatti sicuramente non potevano non essere note le influenze del raggamuffin sulla stessa Euro-Dance (basterebbe ricordare «All That She Wants» degli Ace of Base, grande successo uscito proprio alla fine del 1992). Ma soprattutto, in quegli stessi anni, il raggamuffin conosce una grande diffusione in Italia, grazie a gruppi – peraltro tutti caratterizzati dall’impegno politico e dalle comuni origini nella galassia dei centri sociali – che cantavano perlopiù nel loro dialetto d’origine, come i veneziani Pitura Freska, i napoletani 99 Posse e Almamegretta, e i salentini Sud Sound System. Non c’è forse neanche bisogno di sottolineare le inflessioni liguri del cantato del Gabibbo. Ancora una volta, come in «Hai capito Cocorito?» la voce solista di Ricci si alterna in call and response con un coro, stavolta maschile, che risponde all’elenco iperbolico del Gabibbo con lo hook della canzone «Paghi la tassa». Nel ritornello («E il lupo non fa più buu…») al Gabibbo si unisce un altro coro, prevalentemente femminile, che canta all’unisono. Ricci invece canta la melodia una terza sopra. Sembra quasi un coro di mondine, o un coro alpino. Le metafore del lupo e della pecora presenti nel testo sono del resto molto simili a quelle presenti nella canzone tradizionale piemontese «La pastora e il lupo», uno dei cavalli di battaglia delle formazioni corali in tutto il nord Italia. In una delle tante versioni del testo della canzone, la protagonista viene salvata da un nobile cavaliere, che uccide il lupo.[28]
Pochi mesi dopo, il 26 gennaio del 1994, un altro cavaliere sarebbe sceso «in campo per un nuovo miracolo italiano». Come qualcuno ricorderà, la sigla di Forza Italia è interamente cantata da un coro.
Conclusioni
Tutte le sigle analizzate presentano, in conclusione, uno schema molto simile, al di là del genere musicale di riferimento:
1) ingresso del Gabibbo con una breve introduzione parlata;
2) esposizione di un oggetto musicale (musema), più o meno consciamente noto allo spettatore, che attraverso un processo di articolazione viene ad assumere una funzione nuova, ovvero quella di “accogliere” in un universo musicale familiare e rassicurante, e di “accompagnare” verso il messaggio enunciato nella strofa;
3) strofa cantata da Ricci/Gabibbo, dove viene sviluppato il tema centrale della canzone, spesso in call and response con il coro;
4) infine, il ritornello, sempre cantato insieme al coro. Il Gabibbo non è una voce solista, è un corifeo, è portavoce di una moltitudine, del popolo.
Antonio Ricci, portando come esempio la compostezza e la dignità della morte del Cristo nell’immagine geometrica della crocifissione, afferma che «poter contare su un’immagine “giusta” è sempre stato determinante ai fini della propaganda» (1998, p. 10).
Certo, l’immagine del Gabibbo funziona: peraltro, anch’essa è stata oggetto, in modo molto più evidente rispetto alle canzoni, di un’operazione di “riciclaggio” (termine che, a nostra volta, prendiamo a prestito dalla citata lettera di Aldo Grasso a Ricci). In questo caso, però, l’evidente somiglianza con la mascotte della Western Kentucky University, Big Red, ha portato gli autori di Striscia in tribunale, dove sono comunque stati assolti.
Tuttavia, l’immagine, da sola, non basta. E non bastano nemmeno le parole, su cui si sono concentrate le critiche dei vari Panarari e Grasso. Serve innanzitutto una buona colonna sonora. Un sound che funzioni. Non a caso Franco Fabbri ha genialmente definito la canzone come un «formidabile esercizio di oratoria».[29]
Ricci si è sempre difeso (per la verità abbastanza agevolmente, come si diceva più sopra) dalle accuse di servilismo, definendo libere e addirittura “comuniste” le sue trasmissioni,[30] e arrivando a citare anche un improbabile scontro all’arma bianca con Silvio Berlusconi in persona.[31] Ha anche definito (1998, p.64) il suo pubblico «intelligente, in grado di rispondere alle provocazioni, di accogliere i dubbi», aggiungendo poi (Ivi, p. 65) come «le migliaia di telefonate e il numero sempre crescente di segnalazioni via fax o via internet testimoniano che sempre meno i telespettatori subiscono la televisione come dispensatrice di certezze» .
Ma per quanto possa dire o scrivere Ricci, la voce raschiante del Gabibbo, almeno per quanto canzoni, non è mai stata – per citare uno dei primi sottotitoli di Striscia – la “Voce dell’Innocenza”.
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Articoli
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Discografia (in ordine di citazione nel testo)
Il Gabibbo. 1990. «Ti spacco la faccia», EMI 14 1188486, 12’’ (45 rpm).
Snap! 1990. «The Power». Logic Records, 12’’ (45 rpm).
Il Gabibbo. 1995. «Hai capito Cocorito?», in Un attimino, Five FM 8067», CD.
Snap! 1992. «Rhythm Is a Dancer», Arista 74321-10257-1, 12” (45 rpm).
Newcleus. 1984. «Automan» / «Where’s the Beat», Sunnyview SUN 420», 12” (45 rpm).
Culture Beat. 1993. «Mr. Vain», Dance Pool DAN 659152 2, 12” (45 rpm).
Il Gabibbo. 1991. «My Name Is Gabibbo», in My Name is Gabibbo EMI 66 7963321, LP (33 rpm).
Boone, Pat. 1962. «Speedy Gonzales» / «The Locket», London Records 45-HLD 9573, 7” single (45 rpm).
The Gladiolas. 1957. «Little Darlin’» / «Sweetheart Please Don’t Go», Excello 45-2101, 7” single (45 rpm).
The Diamonds. 1957. «Little Darlin’» / «Faithful and True», Mercury 71060X45, 7” single (45 rpm).
The Rubettes. 1974. «Sugar Baby Love», Polydor 2058 442, 7” single (45 rpm).
Reitano, Mino. 1974. «Dolce Angelo» / «Key», Durium Ld A 7873, 7” single (45 rpm).
Villaggio, Paolo. 1975. «La ballata di Fantozzi» / «L’impiegatango», EMI 3C006-18082, 7” single (45 rpm).
Il Gabibbo. 1995. «Le tasse», in Un attimino, Five FM 8067, CD.
Burro Banton. 1993. «Boom Wa Dis», StepSun Music Entertainment 53748-0122-0, 12” (45 rpm).
Ace of Base. 1992. «All That She Wants», Polydor 861 271-1, 12” (45 rpm).
Note
[1] Grasso fu anche protagonista di uno scambio di vedute a mezzo stampa con l’editore di Ricci, Giulio Einaudi, dopo un suo articolo intitolato «Striscia la Notizia, ma non il libro», pubblicato sul Corriere della Sera il 28 gennaio 1999 ed avente come oggetto le presunte scarse vendite di Striscia la Tivù. Einaudi gli rispose il giorno dopo, con una lettera pubblicata, sempre dal Corsera, con il titolo «Se l’autore vende trentamila copie».
[2] Aldo Grasso ha peraltro recensito il libro di Panarari (sul Corriere della Sera, 23 maggio 2010) con toni piuttosto critici: «Tratteggiare di punto in bianco l’epifania della tv commerciale in Italia senza minimamente analizzare il prima (sia l’evoluzione del mezzo che l’atteggiamento della sinistra nei confronti del medesimo) e il durante (ciò che succedeva in altri Paesi), è un errore metodologico non da poco».
[3] Intervista di UniRomaTv a Massimiliano Panarari, caricata il 26 aprile 2011. <https://www.youtube.com/watch?v=p2eV9Qps4xs> (ultima visita 12/6/2018).
[4] Fanno forse eccezione le accuse di sessismo, che sembrano aver colpito il bersaglio, visto che Ricci si è sentito in dovere di affiancare due valletti maschi alle più note veline, a partire dalla stagione 2014-15.
[5] Anche a una recensione del volume di Panarari, scritta da Luca Mastrantonio e pubblicata su Il Riformista il 7 luglio 2010, seguì una risposta firmata “Gabibbo” e intitolata «Compagni, Drive in non si tocca», pubblicata il giorno dopo sul medesimo quotidiano.
[6] Cit. in Ricci 1998, p. 167: «Ma il Gabibbo no, non ci voleva. Che la sua canzone sia stata in testa alle classifiche, che lo attendano serate in discoteca e feste di piazza, che ve ne serviate per catturare l’audience infantile, ebbene tutto ciò è riprovevole».
[7] L’elenco completo dei titoli delle sigle di Striscia, anno per anno, in base al sito striscialanotizia.mediaset.it: «Selfame mucho», stagione 2014-2015; «La ripresa», 2013-2014; «Tecnomania», 2012-2013; «Cavolini di Bruxelles», 2011-2012; «Pissi Pissi», 2010-2011; «Veleno e Veline», 2009-2010; «Grembiulino e vai!!!», 2008-2009; «La Tribù», 2007-2008; «Mazzacherè», 2006-2007; «Le cozze», 2005-2006; «Menti brulicanti», 2004-2005; «Sirenone», 2003-2004; «Specchietti», 2002-2003; «Euregghe», 2001-2002; «Formaggi selvaggi», 2000-2001; «Puzzoni», 1999-2000; «I nostri», 1998-1999; «Caramelle», 1997-1998; «Panzadesgracia», 1996-1997; «Viscido» (dal 23 gennaio 1996 sostituita da «Fu fu dance»), 1995-1996; «La Rumenta» (dal 13 febbraio 1995 sostituita da «Un attimino»), 1994-1995; «Hai capito Cocorito?», 1993-1994; «Le Tasse», 1992-1993; «Ma sei scemo?» (dall’8 giugno 1992 sostituita da «My Name Is Gabibbo»), 1991-1992; «Ti spacco la faccia» (dal 18 marzo 1991 sostituita da «My Name Is Gabibbo»), 1990-1991.
[8] Antonio Ricci ha un passato giovanile di cantautore. In base alla biografia presente sul sito ufficiale della trasmissione, striscialanotizia.mediaset.it, una delle sue canzoni fu scelta per la colonna sonora del film del 1970 Attenzione alla puttana santa, diretto da Rainer Werner Fassbinder.
[9] Intervista a Panorama del 1 novembre 2007.
[10] Intervista a Famiglia Cristiana del 13 febbraio 2000.
[11] Lo stesso campionamento fu utilizzato qualche anno più tardi da Elio e le Storie Tese, per il loro singolo «Pipppero».
[12] Ecco l’andamento settimanale nella hit parade di «Ti spacco la faccia», nell’anno 1991 (fonte hitparadeitalia.it). Complessivamente fu l’undicesimo singolo più venduto dell’anno. 12/1/1991 pos. 29; 19/1/1991 pos. 2 (dietro a «Attenti al lupo» di Lucio Dalla); 26/1/1991 pos. 2; 2/2/1991 pos. 2 (dietro a «Sadeness» degli Enigma); 9/2/1991 pos. 2; 16/2/1991 pos. 2; 23/2/1991 pos. 2; 2/3/1991 pos. 2; 9/3/1991 pos. 6; 16/3/1991 pos. 4; 23/3/1991 pos. 7; 30/3/1991 pos. 8; 6/4/1991 pos. 10; 13/4/1991 pos. 12; 20/4/1991 pos. 16; 27/4/1991 pos. 13; 4/5/1991 pos. 13.
[13] Per una fenomenologia dell’ascolto «disattento», cfr. Fabbri 2005, pp. 25 e sgg.
[14] «A set of musical structures that are either constant for, or regarded as typical of, the “home” musical style» (Tagg e Clarida 2003, p. 102).
[15] «Since the middle of the 1970s rock songs entirely or mainly based on aeolian ostinati, built on the chords i, bVI and bVII, have appeared with increasing frequency: Dire Straits’ “Sultans of Swing” (1978), “Message in a Bottle” (1979) by The Police, Phil Collins’ “In the Air Tonight” (1981), “I Know There’s Something Going On” (1982) by former Abba member Frida, ABC’s “The Look of Love” (1982) and Kim Wilde’s “The Second Time” (1984), to mention only a few. A perhaps even larger number of songs are to a larger or smaller extent characterized by the use of aeolian harmony, without this taking the form of harmonic ostinati; some examples are Kim Carnes’ “Voyeur” (1982), Irene Cara’s “Flashdance” (1983) and “Let’s Dance” (1983) by David Bowie» (Bjørnberg 1984).
[16] «Aeolian harmony as defined above forms a unitary closed system with few components, generally pervading an entire piece of music; therefore, it can be argued, aeolian harmony may be treated as one generalized unit of musical expression, or museme in the sense that this term is used by Tagg» (Bjørnberg 1984, pp. 6-7).
[17] Il caso degli stessi Snap! è esemplare: Anzillotti e Münzing si fecero inizialmente accreditare sui loro dischi con gli pseudonimi di Benito Benites e John “Virgo” Garret III, forse perché la Germania e l’Italia non erano paesi considerati “cool” dal pubblico di riferimento della musica dance.
[18] Dalla stagione 1994/95, alla coppia Natale/Melloni subentrò per qualche tempo Max Longhi, produttore e autore tra l’altro di diverse sigle di cartoni animati Mediaset. Longhi risulta autore, insieme a Turatti, delle musiche sigle di Striscia fino a «Fu fu Dance» del 1996. Dalle edizioni successive (se si eccettua la parentesi «Panza Desgracia», scritta per Ricci da Cristiano Malgioglio e Vincenzo Spampinato) Ventimiglia e Ricci sono indicati in base ai dati del deposito SIAE come autori delle musiche, mentre Greggio e Beccati continuano a essere autori dei testi.
Un ulteriore cambiamento avviene nel 2010, con «Pissi Pissi»: il nome di Ricci sparisce, venendo sostituito da un non meglio identificato “Brick”, in possesso di un diverso codice SIAE rispetto all’autore di Striscia. È probabile che si tratti di uno pseudonimo, dietro il quale si potrebbe celare lo stesso Ricci.
[19] Da un’intervista di RockShow a Roberto Turatti. <http://www.rockshow.it/Interviste/intervista-roberto-turatti.html> (link non più attivo)
[20] Ricci, più di recente (in un’intervista a Vita del 20 dicembre 2013), si è invece paragonato al papa: «Di Francesco mi colpisce il suo voler essere uomo tra gli uomini, sulla strada. In fondo anche noi siamo dei pellegrini, basta vedere i nostri poveri inviati che trottano da una parte all’altra sulle strade d’Italia. Poi Francesco usa il telefono, e noi – si parva licet – il telefono lo usiamo da sempre, per permettere ai cittadini di denunciare le angherie che sono costretti a subire».
[21] Scritta da Buddy Kaye, Ethel Lee e David Hess e pubblicata dallo stesso Hess (con lo pseudonimo di David Dante) nel 1961, l’anno successivo la canzone fu portata al successo mondiale da Pat Boone. In Italia la ripresero Johnny Dorelli e Peppino Di Capri. L’intro vocale, nella versione di Boone, è eseguito dalla cantante Robin Ward.
[22] Ricci d’altra parte condivideva con Paolo Villaggio race, milieu et moment, e lo scelse anche come conduttore della sua trasmissione nel 1996 insieme a Massimo Boldi. Per un’ulteriore e curiosa coincidenza, Gianni Fantoni, conduttore della stagione 1991-92 – quella di «My Name Is Gabibbo» – era un noto imitatore di Villaggio.
[23] Cfr. «Un pupazzo per il Mugello», su Repubblica del 28 settembre 1997. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/09/28/un-pupazzo-per-il-mugello-candidato-anche.html> (ultima visita 12/6/2018).
[24] Prima dell’approvazione della finanziaria, ricordiamo come il primo atto del Governo Amato I fu un prelievo forzoso del 6% dai conti correnti delle banche italiane, nella notte tra giovedì 9 e venerdì 10 luglio 1992, legittimato ex-post con un decreto d’urgenza l’11 luglio.
[25] La principale differenza tra i due testi, al di là dei dettagli, è probabilmente il fatto che George Harrison si rivolgesse direttamente ai due principali leader politici britannici, Harold Wilson e Edward Heath.
[26] Per Bradley (in 2008, pp. 255 e seguenti) la fine dell’età dell’oro del reggae roots (politicamente e religiosamente impegnato, e perlopiù suonato da gruppi numerosi) e l’avvento della digital era (in cui prevalevano tematiche “leggere” e nel quale era centrale più che altro la figura del DJ) è correlata con la disillusione per la fine del “sogno socialista” dell’allora primo ministro giamaicano Michael Manley e del suo People’s National Party, in seguito alla sconfitta elettorale del 1980.
[27] Cantato sul riddim strumentale «Street Sweeper» di Steelie & Cleevie e prodotto da Super Cat per la sua etichetta Wild Apache Records. Il singolo raggiunse il numero uno nelle classifiche giamaicane ed entrò anche nella Top 40 americana, portando lo stesso Super Cat alla firma di un vantaggioso contratto con la Columbia/Sony USA.
[28] «Da lì passa gentil galant, côn la sua bela speja / S j’à dait tre côlp al lüv, barbin l’è saôtà ’n tera». Per il testo completo, cfr. <http://www.toptesti.it/testo_la_pastora_e_il_lupo_canti_popolari_607819> (ultima visita 12/6/2018).
[29] «Un esercizio formidabile, perché mette in gioco due linguaggi che possono assecondarsi, contraddirsi, risultare indifferenti l’uno coll’altro o fingere di farlo: insomma, possono interagire in infiniti modi» (Fabbri 2002, p. 135).
[30] In una replica, intitolata «Cari compagni, Drive In non si tocca», e firmata ancora una volta “il Gabibbo”, a un articolo di Daniele Mastrantonio (si trattava di una favorevole recensione al già citato testo di Panarari) sul quotidiano Il Riformista del 7 luglio 2010. La replica di Ricci contiene tra l’altro l’ennesimo riferimento a Fantozzi.
[31] Da Ricci 1998, pp. 148-149: «Vengo convocato ad Arcore. Berlusconi mi fa entrare in uno studiolo, ma, una volta chiusi dentro, prende da terra un pesante fermaporte e brandendolo mi si fa avanti minaccioso. “Voglio proprio vedere cos’hai in quella testa”. Schizzo dietro la scrivania e impugno un tagliacarte: “E io ti apro. Ti faccio il vestito da prete visto che sei un prete!”. Ci fronteggiamo alcuni secondi, poi una risata».