La chanson errante Tra Italia e Francia le inquietudini di Herbert Pagani

Carlo Bianchi

carbianchi[at]libero.it

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Abstract

Herbert Avraham Haggiag Pagani nacque a Tripoli da genitori ebrei verso la fine della seconda guerra mondiale, quando la Libia era ancora una colonia italiana, testé occupata però dai britannici. Trascorse poi l’infanzia e l’adolescenza fra vari paesi d’Europa – Austria, Germania, Francia, Svizzera, Italia. A partire dagli anni Sessanta, dividendosi fra Italia e Francia, divenne un artista poliedrico, cantante, autore e traduttore di canzoni, scrittore, disegnatore, incisore, assemblatore, disc-jokey, ma anche attivista sociale e politico. La sua educazione e formazione disparate e la sua eclettica attività avevano trovato una forte rispondenza di ideali nei versi di vari chansonnier d’oltralpe come Jacques Brel e Leo Ferré. Pagani si presentò sulla scena della musica leggera italiana non solo con canzoni originali in italiano ma anche traducendo nella nostra lingua alcune chanson francesi, fra cui spiccano «Le Plat Pays» e «Ces gens-là» di Brel (divenute rispettivamente «Lombardia» e «Che bella gente»). Egli le cantava in sintonia con la propria condizione personale ma anche con certi argomenti generali secondo lui importanti e attuali. Oltre a costituire una testimonianza autobiografica le parole franco-italiane delle canzoni di Pagani offrono una chiave di lettura per alcune delle trasformazioni e inquietudini che caratterizzavano la realtà urbana italiana e francese fra gli anni Sessanta e Settanta. Esse si trovano riassunte dapprima nel concept-album Amicizia (Italia, 1969) e poi vari dischi successivi, quando Pagani trovò in Francia un ambiente meno ostile alle sue tematiche, fra cui spicca il concept-album, Megalopolis (Francia, 1972; Italia 1973). I medesimi aspetti si possono cogliere negli scritti di Pagani, in particolare nel suo Roman autobiographique, nonché nelle sue opere visive.

KEYWORDS: letteratura francese; società urbana e popular music; arte; ecologia; ebraismo; omosessualità; Marco Ferradini.

Apparenze e realtà italiane

A ben vedere, nemmeno «Cin cin con gli occhiali» si era appuntata su un fatto tanto lieve, benché qualcuno ora la definisca giusto una «deliziosa sciocchezzuola» (Castellani 2010, p. 11; Colombati 2011, p. 1725). Il tempo trascorso dalla fine degli anni Sessanta, quando Herbert Pagani scrisse quella canzone con Edoardo Bennato, può forse far dimenticare che allora portare occhiali generava dei seri complessi. Nulla a che vedere con l’odierno narcisismo del volto ornato di montature le più appropriate e alla moda. A quel tempo, sull’onda di un boom economico italiano che dava nuovi impulsi alla lettura e all’alfabetizzazione – grazie all’accresciuta attività dell’editoria, con le relative forme della cultura e della comunicazione stampata, libri, giornali, riviste e fumetti, ma anche grazie alla diffusione del cinema e della televisione – gli occhiali divennero un corollario obbligato per molti, giovani e non. In quanto sussidio per compensare un handicap, quale di fatto è l’insufficienza della vista, apparvero nella nostra cultura di massa come una «miseria» di cui vergognarsi. Si trattava di un disagio avvertito anche in altre società del nuovo benessere, quella americana ad esempio, come testimoniavano gli occhiali di Linus e la compassione di altri personaggi dei Peanuts intorno a lui, persino della bisbetica Lucy, in quel microcosmo infantile che rimandava invero al mondo degli adulti (Eco 1964a; Bassano di Tufillo 2010).

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Immagine 1: 7 febbraio 1962 (data dell’originale americano).

Nella cultura popular italiana, accanto a cose come i Peanuts tradotti nella nostra lingua, il complesso degli occhiali si ritrovava appunto, lenito, nella canzone di Herbert Pagani. Nel cantare che il «mondo è di tutti» non solo dei belli ma anche dei «brutti» che devono portare gli occhiali, Pagani collocava queste vittime di un mondo miope fra le varie tipologie di diversi ed emarginati sociali a cui le ideologie e gli accadimenti degli anni sessanta prestavano nuova attenzione e conferivano dignità. Con le sue canzoni, del resto, egli aveva espresso altri disagi che attraversavano la società italiana in quel periodo, sintetizzandoli infine nel long-playing Amicizia (1969). Il sorriso che oggi può suscitare «Cin cin con gli occhiali», al pari di altri testi di Pagani giudicati allora di un poetismo innocuo come la nota «Lombardia», si pone a suo modo come emblema di un repertorio mainstream degli anni sessanta apparentemente spensierato, quando non addirittura frivolo (stigmatizzato molti anni dopo dalla parodistica «Qua qua quando» di Francesco Baccini)[1] in cui si infiltravano tuttavia elementi di disturbo a vari livelli, così come quegli anni sessanta in generale furono sì «favolosi» per la ripresa economica e i sentimenti di speranza e cambiamento portati dalle giovani generazioni, ma proprio questi aneliti erano anche l’espressione di un’inquietudine che fronteggiava resistenze altrettanto intense e in modo talora violento – una dialettica esplosa infine nel terremoto del Sessantotto.

Contrasti e ambiguità

Già a quel tempo Umberto Eco (1964b) notò come nella insorgente società di massa italiana la canzone di consumo, quella prodotta dalle major discografiche e legata alle esigenze del mercato, nonché diffusa tramite i media radio-televisivi e manifestazioni come il Cantagiro o Un disco per l’estate ma soprattutto il Festival di Sanremo, fosse un fondamentale strumento di analisi del sistema sociale e dunque come anche la più banale canzone di evasione esprimesse a suo modo esigenze profonde – per quanto assai diverse da quelle del Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano che operavano ai margini del grande circuito commerciale. Se cioè l’istanza del Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano era stata quella di «evadere dall’evasione» ricercando tramite le canzoni una (supposta) maggiore adesione alla tradizione e agli accadimenti della nazione, per altri versi questi venivano raccontati anche dalle canzoni di consumo: soprattutto, non sembri un paradosso, dal Festival di Sanremo. Nonostante definizioni come quella di Massimo Mila, che alla fine degli anni cinquanta parlava di «sudicia industria dell’illusione» (Mila 1959, p. 506), vari contributi più recenti da quello pionieristico di Gianni Borgna (1980) fino a quello aggiornatissimo e circostanziato di Facci e Soddu (2011) hanno evidenziato come la «grande evasione» del Festival non fosse in verità affatto estranea alle dinamiche del paese. Queste piuttosto si ritrovavano rappresentate a Sanremo in una ben determinata prospettiva, o per lo più se ne ritrovavano solo alcune. Così, la contrapposizione espressa dalle canzoni della scena italiana non si poneva tanto fra evasione e realtà, quanto fra realtà diverse: in particolare fra produzioni/manifestazioni come quella sanremese «concepita come veicolo con il quale condensare e filtrare ritualmente all’inizio dell’anno i motivi che dovevano nutrire la cultura di massa nell’era dell’egemonia cattolica e democristiana» (Soddu 2008) e una produzione generalmente più in sintonia con ambiti politico-sociali di sinistra che contestavano quell’egemonia e premevano sempre più per un approdo al pluralismo.

La contrapposizione tuttavia non era sempre evidente e si articolava su piani piuttosto differenziati. Molte delle ambiguità di questo panorama culturale erano incarnate innanzitutto dalla nuova figura del cantautore. Anch’essa nasceva come prodotto commerciale manipolato dall’establishment mediatico-discografico, attirando perciò forti critiche dalla cultura musicale di sinistra (Guichard 1999, pp. 297 e sgg.), ma allo stesso tempo, sulla scia della qualità ricercata da Nanni Ricordi, venivano gettate le basi per una generazione di cantautori che avrebbe offerto autentiche espressioni di quel tempo al di là delle inflazionate tematiche di evasione. Inoltre, le radici storico-sociali ricercate da gruppi di sinistra come il Cantacronache e il Nuovo Canzoniere Italiano, nonché da cantautori certo «impegnati» eppure ben presenti sul mercato come Francesco Guccini o Fabrizio De André, potevano toccare argomenti che non costituivano necessariamente una contrapposizione rispetto al substrato ideologico della produzione mainstream – basti pensare al ripudio della guerra o al comune passato antifascista. Infine, se vogliamo considerare gli attriti sociali di quel periodo non tanto in una prospettiva politico-ideologica, quanto generazionale, le inquietudini dei giovani alla ricerca della propria affermazione e alterità rispetto alla generazione dei padri non caratterizzavano solo certi cantautori «impegnati» e vicini ad ambienti di sinistra, ma anche le canzoni di babies’ idols come Gianni Morandi o Rita Pavone, tutt’altro che alternativi rispetto ai circuiti del grande establishment mediatico in generale e specificamente rispetto agli strumenti dell’egemonia cattolico-democristiana. Altre sfumature di tale dialettica si potevano cogliere nelle canzoni di alcuni complessi assai popolari come i Rokes o i Nomadi (Berselli 1999, p. 12) e nelle espressioni del beat in generale (Torti 2001).

Il suicidio di Luigi Tenco al Festival di Sanremo del 1967 arrivò come una sconvolgente conferma di quanto le pulsioni dell’Italia in trasformazione venissero raccolte anche dalla più seguita rassegna canora nazionale, pur nel tentativo di disarmarle. O forse proprio per questo – perché dare una voce alle diverse sensibilità del paese, cioè, costituiva il presupposto imprescindibile per amalgamarle. Il meccanismo su cui si basava l’aspirazione egemonica della rappresentazione sanremese era in realtà ben più complicato di quanto potesse apparire. Il caso di Tenco può esserne considerato un emblema – ancor più della vittoria del «comunista» Sergio Endrigo giunta l’anno dopo quasi come oculata compensazione – proprio in ragione di una carica quanto mai controversa che dipendeva in parte dalle motivazioni di quel gesto tragico, per certi versi insondabile, e in parte dai significati della canzone che lo aveva scatenato nel venire eliminata dalla competizione. «Ciao amore ciao», infatti, era l’isolato grido di dolore di uno sradicamento collettivo, provocato dal fenomeno dell’immigrazione nelle nuove realtà urbane, e che tuttavia a un lettura superficiale poteva (potrebbe) essere confusa con le spensierate tematiche amorose che dominavano al Festival, e anche altrove – e d’altronde lo stesso suicidio di Tenco che fece assurgere il cantautore a vittima del sistema acquistò nell’immaginario collettivo una risonanza ideologica riconducibile tanto ad ambiti di sinistra quanto cattolici (Facci e Soddu 2011, p. 157; Santoro 2010, p. 103). Al di là dunque di istanze che possono essere definite «conservatrici» oppure «di contestazione», sia esse riconducibili a contrapposizioni politiche oppure ad attriti di tipo generazionale, le conflittualità della società italiana raccontate in vari modi anche dai testi delle canzoni scaturivano più genericamente dai vari malesseri nati con il mondo del benessere. Inevitabile dunque che anche le due sfere opposte malessere vs. benessere si ritrovassero spesso intrecciate o perfino indistinguibili.

Un uomo diviso

Herbert Pagani incarnava queste contraddizioni per via della levità solo apparente, invero, di certe sue canzoni come «Cin cin con gli occhiali» o «Lombardia» (pure quest’ultima nascondeva striscianti inquietudini) ma anche per via dei suoi controversi rapporti con l’establishment della musica leggera italiana. Da un lato, infatti, fin in dai suoi esordi nella seconda metà degli anni sessanta, Pagani fu una figura pienamente integrata nel circuito commerciale e mediatico italiano: nel 1968, insieme con la fedele socia Annalena Limentani, avrebbe fondato una propria casa discografica, la Mama Records, e, in qualità di autore, alcune sue canzoni venivano presentate da altri cantanti in popolari rassegne. Infine, pur giovanissimo, divenne un innovatore disc-jokey e conduttore radiofonico per Radiomontecarlo con la trasmissione Fumorama. D’altronde, questa medesima trasmissione costituiva un’alternativa rispetto a ciò che proponeva il monopolio RAI, ma anche la Radio Vaticana, sia per la scelta delle canzoni sia per le modalità con cui venivano proposte, così come la Mama Records perseguiva una linea diversa dalle etichette major. Né il Pagani cantante o autore partecipò mai al Festival di Sanremo, e i suoi intensi rapporti proprio con Tenco, il cui suicidio gli procurò uno shock, costituivano inevitabilmente un contrasto rispetto alla manifestazione e ad altri circuiti mediatici italiani, quantomeno nella consapevolezza di quelle controversie.[2] Non va nemmeno dimenticato che Pagani in qualità di autore contribuì al primo disco «impegnato» di Giorgio Gaber – L’asse d’equilibrio, nel 1968 – con i testi di «Una canzone come nasce», «Canta», «L’asse d’equilibrio» e «La vita dell’uomo». Il fatto più rimarchevole è che parecchie delle canzoni che egli cantava in prima persona, a fronte delle poche definite da lui stesso «compromissorie», si scontrarono di continuo con gli ostacoli della censura, che vi ravvisò elementi incompatibili con l’egemonia benpensante di allora. Di qui, a partire dagli anni settanta, scaturì infine la decisione di Pagani di proseguire la sua attività nella più tollerante Francia – pur non perdendo i contatti con l’Italia.

Erano state molte le storie dolenti che Pagani aveva raccontato fin dal suo apparire sulla scena musicale italiana. Nel 1965 «Ballata del fallito», «Testamento all’italiana», «Sedotta e accasata», «Giorno di festa» e «Ferragosto» fecero censurare il suo primo 33 giri, Una sera con Herbert Pagani. Dalla sfera intimista o persino auto-biografica, fino a problematiche sociali ben più ampie, come quella sottilmente nascosta degli occhiali, o quella eclatante dell’emigrazione, per non parlare delle invettive contro la classe borghese di «Che bella gente», Pagani correva sull’orlo del disagio. Sulla copertina del long-playing Amicizia con cui Pagani concludeva la sua produzione italiana degli anni Sessanta – una sorta di concept-album seppure ancora nella forma ibrida dell’assemblaggio di canzoni precedenti – stilò addirittura una descrizione tripartita dove per ogni canzone veniva indicato, oltre al titolo e all’argomento, anche il «punto scottante».

Al di là delle tematiche, poi, i testi di Pagani si inserivano in un’altra controversa dialettica che allora caratterizzava la musica leggera italiana, ovvero quella che contrapponeva la ricerca poetico-letteraria delle canzoni «alternative» al linguaggio più banale e impoverito tipico di quelle di consumo (la maggiore levatura testuale delle prime rispetto alle seconde si trovava ad un estremo, ancora una volta, nei casi del Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano, cui parteciparono attivamente importanti nomi della narrativa e della poesia italiana contemporanea come Italo Calvino e Franco Fortini). Nelle canzoni di Pagani, insomma, ciò che oscillava non era solo il grado di sincerità e profondità del messaggio, con il relativo grado di «disturbo» che esso poteva recare, ma anche la qualità della lingua, divisa fra aneliti a una versificazione poetica ed espressioni più appartenenti alla vita quotidiana.

Dalla Francia alla Francia

Per comprendere la matrice letteraria che contribuiva all’eleganza formale di certe canzoni di Pagani, nonché i contenuti più autentici di quei suoi versi talora scomodi, è necessario considerare la sua formazione francese. Alcune delle più note canzoni italiane di Pagani degli anni sessanta erano traduzioni, o meglio liberi adattamenti di chanson francesi: da Boris Vian, Marcel Moloudij, Barbara, e soprattutto Jacques Brel – «Lombardia» era la versione italiana di «Le plat pays»; «Che bella gente» di «Ce gent là»; il «Testamento all’italiana» di «Le moribond»; «Sai che basta l’amore» di «Quand on n’a que l’amour». Anche quello che fu forse il maggior successo di Pagani, «Albergo a ore», era l’adattamento di una chanson degli anni Cinquanta, «Les amants d’un jour», scritta da Marguerite Monnot e cantata da Edith Piaf. Per Pagani l’ispirazione francofona non era solo uno sguardo gettato oltre confine – come fu per altri autori e cantanti italiani che inizialmente abbisognavano di quei modelli cantautorali – ma rifletteva una forte identificazione biografica e culturale. Aveva infatti trascorso l’adolescenza a Parigi, parlando perfettamente il francese (appreso a scuola fin dall’età di sette anni, seppure dopo l’italiano materno e dopo il tedesco dei suoi primi collegi austriaci e svizzeri) assorbendo molto di quel milieu sociale e artistico. La seminale passione per gli auteurs-compositeurs-interprètes si trova sintetizzata nella canzone «Un italien à Paris», scritta nel 1970, quando la nostalgia per la capitale delle chanson («la bohème firmata Aznavour, come la chiama lui») aveva assunto ormai i contorni di un esilio da colmare.

Oh mon Paris, ma douce France
où Charles Trenet sonne adolescence
et où j’ai cru toucher le ciel
en découvrant Ferré et Jacques Brel, oui.

Ritornato in Francia, l’anno successivo, sulla copertina del primo disco registrato in francese avrebbe pubblicato questi versi manoscritti:

Langue française
qui dormais dans ma tête
depuis tant de le saisons,
je t’ai retrouvée
comme on retrouve
son premier Amour

Se dunque per Pagani era stato del tutto naturale esordire trasponendo in italiano certe chanson (e poi curare testi italiani per altri cantanti francesi come Michel Polnareff a Françoise Hardy) tale ricreazione non si limitava al verso in quanto tale, ma coinvolgeva anche gli aspetti psicologici e morali, i temi sociali o addirittura politici che gli ACI toccavano in quei testi. Le istanze del Pagani cantautore in Italia, con il conseguente ritorno polemico in Francia, si comprendono anche grazie a questa matrice. Basti pensare che molte delle censure derivarono proprio da questi casi di traduzione e adattamento. Nelle canzoni di Una serata con Herbert Pagani, oltre alla breliana «Testamento all’italiana», erano francesi anche «La ballata del fallito» (adattamento da Moloudij), «Ferragosto» e «Una donna» (entrambe da Barbara). Invece «Albergo a ore» venne trasmessa in TV con scritte in sovraimpressione ad ammonire che la declamazione pubblica di quell’argomento, col suicidio finale dei due amanti, era cosa di cui Pagani doveva assumersi la responsabilità.

Pagani durante i suoi anni di gioventù a Parigi, grazie soprattutto alla frequentazione del poeta Jean Rousselot e della sua biblioteca, aveva sviluppato un forte interesse per la letteratura in generale che informò le sue canzoni sia a livello di forma che di contenuto. In Francia, del resto, il contatto fra l’ambito puramente letterario e quello della chanson era un fatto del tutto naturale, gli ACI mettevano sovente in musica testi di poeti contemporanei. Così, la ricerca di un intreccio fra linguaggio poetico e istanze morali aveva caratterizzato l’approccio di Pagani tanto alle chanson quanto a diversi poeti e narratori francesi: Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, ma soprattutto Victor Hugo, ritenuto un vertice letterario e umano. Pagani ribadì la venerazione totale per Hugo in una delle tarde canzoni del suo secondo periodo francese, «Vieux père Hugo», incisa nel 1977, dove lo scrittore viene descritto sia come «bâtisseur de cathédrales de rimes» e «Michel-Ange de l’alexandrin» sia come vate spirituale in un contesto sociale attualizzato.

Tu pouvais avoir confiance en l’homme
t’avais pas la bombe à l’horizon
dans ton siècle à toi les champignons
ne poussaient que sous les feuilles d’automne
mais pour nous les mots comme justice,
liberté, progrès, démocratie
sont des filles qui ont tellement servi
à Moscou, Paris, New-York et Rome
qu’elles ne font vraiment plus jouir
personne
Juste une minorité de fous
qui ont confiance envers et contre tout
comme toi en l’avenir de l’homme
Et moi j’en suis
mon vieux père Hugo, […]

Nel romanzo autobiografico Préhistoire d’amour, scritto in privato fra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta a mo’ di profonda autoanalisi retrospettiva, Pagani avrebbe chiosato che in generale «La poésie n’est pas qu’un affaire de langue. C’est aussi une affaire de circonstances» (Pagani 2003, p. 125; corsivo in originale). Egli aveva scelto i suoi modelli letterari e poetico-musicali non solo in base alla lingua, ma anche in base alle «circostanze» che essi indicavano e che – altro aspetto fondamentale – trovavano in lui una forte rispondenza personale, rispetto alla sua sensibilità e capacità di osservazione del mondo della vita. Riguardo alle chanson, non fu un caso se decise di adattarne in italiano proprio alcune e non altre. Si trattava di un processo di identificazione-assimilazione-trasformazione che scaturiva dall’attenzione di Pagani verso la cronaca, dalla sua appartenenza a una certa cultura collettiva di quegli anni, o addirittura dall’adesione a certi movimenti ideologici, ma anche da certe sue esperienze precedenti intime e familiari, durante l’infanzia e l’adolescenza, che si rivelano essenziali per comprendere la carica generalmente introspettiva dei suoi testi. La fusione fra l’orizzonte personale e quello urbano – emblematica in «Le plat pays» / «Lombardia» – si articolò ulteriormente nelle canzoni scritte in seguito, raggiungendo l’apice nel secondo periodo francese.

Case d’amore e odio

Herbert Avraham Haggiag Pagani (questo il suo nome completo) era nato nel 1944 nel quartiere ebraico di Tripoli – detto la Hara, un tempo ghetto – da genitori ebrei sefarditi di origine ispanico-berbera italianizzati dall’amministrazione coloniale (il cognome Pagani pare derivasse da una distorsione del soprannome del nonno, Bganni). La Libia, seppure ancora colonia italiana, era occupata e controllata da contingenti britannici, date le sorti della seconda guerra mondiale in corso. I genitori di Herbert si separarono poco dopo la sua nascita. Era anche il tempo dell’esodo degli ebrei da quella terra-calderone divenuta per loro ormai pericolosa – la conferma arrivò nel novembre 1945 quando i contingenti inglesi lasciarono via libera a un governo arabo provvisorio che a Tripoli provocò immediatamente un efferato pogrom.[3] Nel 1947 Herbert fu portato dalla madre in Italia. Subito sottratto dal padre da una clinica di Bologna, le sue peripezie, prima di stabilirsi in Francia, furono quelle di un bambino/adolescente sballottato fra collegi in Svizzera, Austria, Germania e Francia, fra due genitori in conflitto che si sottraevano il figlio facendone addirittura strumento di ricatto (Arbib 2006). In canzoni come «La mia generazione» (1970) e ancora negli anni settanta «Des gens hereux» (sul long-playing Les années de la rage et les heures de l’amour, 1974) Pagani avrebbe parlato esplicitamente della sofferenza che gli derivò dalle continue peregrinazioni e dalle ostilità fra i suoi genitori. Nondimeno, tale sensazione di scontro, disadattamento e sradicamento si esprimeva ben oltre la precisazione di quelle esperienze: essa si ritrova in tutto il mondo emozionale evocato da Pagani nelle sue canzoni, quando egli parla di rapporti familiari e amorosi, quando parla di luoghi intrisi di conflitto, o al lato opposto evocati con nostalgia, e così delle svariate esperienze individuali o collettive cui abbiamo accennato.

D’altronde tale senso di inquietudine si ritrova anche nelle altre discipline e attività in cui Pagani si cimentò – la scrittura in prosa e le arti grafiche. Queste ultime furono la prima passione e occupazione di Pagani fino alla metà degli anni sessanta in Francia. Prima che come cantante e cantautore, il Pagani artista nasce infatti come disegnatore e illustratore. Dedito al disegno fin da bambino e ascrivibile poi alla corrente francese del Réalisme fantastique, ottenne giovanissimo un notevole successo in alcuni ambiti fra cui l’importante Galleria Pierre Picard di Cannes, nel 1964, con la mostra Les dessins fantastiques et paysages allucinatoires. L’inclinazione per il mondo del fantastico, che si accompagnava a quella per ambientazioni medievali, era stata fomentata in Pagani dai dipinti di William Blake e di Füssli, ma anche dalla lettura di certi romanzi di Jean Ray, Lovecraft e Ray Bradbury, nonché del venerato Hugo, e soprattutto della principale e seminale opera del Réalisme fantastique, il popolare Le Matin des Magiciens di Jacques Bergier e Louis Pauwels, che egli aveva rinvenuto nell’amata biblioteca parigina di Jean Rousselot (1965, p. 115).

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Immagine 2: Incubo (1964).

Data tale carica visionaria, le tavole di Pagani mostrano sovente una dimensione inquieta e tormentata, quando non addirittura orrorosa (Mostri; Incubo entrambi del 1964; Immagine 2). Il sentimento della paura non risiede solo nei soggetti rappresentati ma anche in un horror vacui formale, cioè nelle caratteristiche del segno stesso che risulta eccezionalmente denso e complesso per via di una congenita ansia del particolare («mio nonno era orafo cesellatore. L’invenzione provoca l’euforia, il lavoro manuale la pace. Più il segno è preciso, più il sogno è divisibile»; Pagani 1991, p. 116) intrecciata con una generica accumulazione di materiali-oggetti che Pagani conduce a un estremo quanto mai coerente nella rappresentazione di eventi accidentali e disastrosi (Schianto, 1966, Inondazione, 1966). Una forte carica emotiva investe la ri-creazione di ambienti e scenografie. Il modello di Escher, in certi casi molto evidente, come talvolta quello di Piranesi, serve a Pagani per esprimere deformazioni, vertigini e complessità dei luoghi, ma anche dei personaggi delle sue tavole, fino a una autobiografica rappresentazione della Voce (1964; Immagine 3) che nasconde nell’ugola i mondi e le contorsioni più impensate trasformando i modelli decorativi in «elementi di tragico valore concettuale» (Schwarz 1991, p. 114).

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Immagine 3: La voce (1964).

Il disegno della Voce può essere considerato un ideale trait d’union fra le istanze grafiche di Pagani e quelle di cantante, anche per ragioni cronologiche. Pagani ottenne successo con queste tavole subito prima di trasferirsi in Italia e iniziare la carriera di cantante. Sia disegnata sia vera, la voce di Pagani fu un medium anche per esprimere quel tormentoso e combattuto cambiamento di vita, quel doloroso abbandono di Parigi e dell’arte rievocato in «Un italien à Paris» insieme alla nostalgia per le canzoni dei Brel e dei Ferré, nonché per un perduto amore, Marie.

Et toi, Marie, si folle et si sage
qui faisais l’amour pareil au potage
je t’ai vendue le long des trottoirs
sur une feuille blanche au crayon noir.
Oh, mon Paris, terre d’aventure
que de conquêtes, que de blessure
les jours les plus beaux
sont toujours les plus courts
adieu la bohème signée Aznavour, oui.

Je rentre au pays, la vie se fait dure
bon jour les chansons, adieu la peinture
et de ces jours dingues où Marie m’aimait
il ne me reste que Brel et Ferré.
Brel et Ferré, c’est vous que je chante
mais dans vos refrains c’est Paris que j’invente
quand on a aimé sous un ciel de brouillard
un ciel tout bleu ça fout le cafard, oui.

Per l’ambiente francese Pagani nutriva una genuina nostalgia – la quale, certo, a prescindere dalle incomprensioni con lo star-system italiano, giocò un ruolo fondamentale nel richiamare Pagani oltralpe. Al di là di questo, l’esordio di Pagani nel mondo della musica leggera in Italia si era caratterizzato per un accavallarsi e stratificarsi di irrequietezze che egli si trascinava fin dalla nascita: un generico e controverso rimpianto rivolto ai tempi e ai luoghi perduti, che si fa tristezza per l’hic et nunc ma anche per quello stesso passato fitto di abbandoni e rinunce che tornano alla mente. La portata trasversale di tale sentimento emerge in una canzone del 1972 in italiano «Oh nostalgia» («Ognuno ha nostalgia di qualche cosa / Di un nome, di una donna, di un paese / Di un angolo di infanzia o di una rosa / O di qualcosa che non sai cos’è») e Pagani avrebbe confermato in seguito quanto fosse importante per lui il continuo tentativo di ritrovare la Maison d’amour che gli fu negata in tenera età (Pagani 2010, p. 220).

Acquista così un particolare significato la canzone «Lombardia» proprio perché rispetto all’originale «Le plat pays» di Brel Pagani aggiunge alla fine di ogni strofa la parola «casa» per indicare Milano. Egli dichiarò che la canzone nasceva dalla constatazione di «quanto è bella Roma e di quanto è brutta Milano. E invece non è vero, basta saperla guardare, basta volerle bene. Però, quando uno ha una ragazza al sud, che cosa può offrire in cambio del sole e del cielo blu? Soltanto vento, nebbia, canali. Ma come farle capire che sono cose altrettanto belle?» (Pagani 1966). Sulla copertina del long-playing Amicizia egli la descrive come «una canzone d’amore, la mia prima ed è dedicata non a una donna, bensì ad una città». Il testo alterna così dichiarazioni d’amore per la città, aneliti di bellezza e di felicità, intrecciati di continuo a realtà tristi e scomode o addirittura lugubri – «il punto scottante è che qui si parla di cattedrali e di funerali. Di solito non si fa». Oltre a «Lombardia», Pagani avrebbe accolto nelle sue canzoni varie tematiche fondamentali di Brel, fra cui l’aura dolente, l’attenzione per l’infanzia/adolescenza che rimane nella psicologia dell’adulto non tanto come nozione storica (temporale-cronologica) bensì geografica – giusto per tornare al ricordo del Belgio natio in «Le plat pays» (Brel 1973). Pagani adattava queste caratteristiche del mondo di Brel alle sue esperienze personali, caricando le sue «case» di forti valenze emotive, ricordi, aspettative o dimesse constatazioni, e rinvenendo infine nel tema della maison d’amour un filo rosso di tutta la propria poetica. A tale matrice vanno dunque ricondotte le figure sradicate e disadattate, gli amori intensi e contrastati che popolano le sue canzoni negli anni Sessanta, così come i nuovi argomenti che egli affronterà in Francia a partire dal decennio successivo.

Quando Pagani si trasferì in Francia, il tema della «casa», intesa nel doppio senso materiale e affettivo, come luogo di provenienza e appartenenza esistenziali, venne da lui esteso a un più ampio discorso sui disagi della realtà urbana in particolare nel concept-album Mégalopolis (1972), disco doppio che fu il suo progetto musicale e culturale più complesso e ambizioso (anche molto apprezzato dalla critica francese, vincitore del Grand Prix International du Disque de L’Académie Charles Cros). Qui la vena dolente e disadattata di Pagani, unita a quella fantastica e visionaria, trova la sua massima espressione nella storia di due amanti di vent’anni in una futuribile città-megalopoli che finisce con l’esplodere per via della propria ipertrofia e ipertecnologia, dei propri malesseri in generale. Nella canzone «Mégapocalypse», il disastro viene paragonato a un colossale infarto, una sorta di fine del mondo che precipita la città in un buio e anarchico far west medievale (tutto il disco è ispirato a Medioevo prossimo venturo di Roberto Vacca) eppure trovando in esso una catarsi finale con la canzone «Le Printemps d’après la fin du Monde» – preludio a una nuova primavera in una terra promessa d’Oriente per i sopravvissuti che avevano avuto la virtù di prevedere la catastrofe.

Il discorso della «casa» di Mégalopolis, nell’estendersi alla vita delle insorgenti metropoli e ai suoi aspetti problematici su larga scala, finisce col porsi nella più ampia, nonché etimologica accezione dell’espressione, quella dell’ecologia (oikos + logos). Pagani toccava con notevole anticipo un altro disagio della società del benessere e che per lui sarebbe stato un tema sempre più ricorrente. L’anno successivo (1973), utilizzando vari documentari Rai, fra cui uno col commento di Indro Montanelli, Pagani realizzò addirittura un pamphlet televisivo intitolato Venise amore mio che mette in guardia dai pericoli che incombono sulla città lagunare. Al tema dell’ecologia avrebbe poi dedicato diverse canzoni, o marcati riferimenti qua e là (ad esempio «Messieurs les présidents», 1975). In Mégalopolis, poi, Pagani trasferiva su larga scala un altro tema per lui ancestrale, quello del conflitto. La guerra si profila nella canzone «Soldats!» (riferimento alla guerra del Vietnam) prima di scoppiare in «Mégapocalipse» sconvolgendo la metropoli.

Ben oltre una generica poetica pacifista e antimilitarista, che pure Pagani sposava in sintonia con gli ideali della sua generazione, i conflitti di Mégalopolis preludevano alla più esplicita identificazione fra la sensibilità artistica-umana di Pagani e i fatti politici e sociali di quel tempo, ovvero la sua presa di posizione riguardo al conflitto fra ebrei e palestinesi, nell’ambito di un generale ritrovamento della sua identità ebraica. Anche questa è infatti una delle caratteristiche che Mègalopolis lascia emergere in modo seminale (sempre nella canzone «Mègapocalipse»). È facile allora collegare i congeniti sensi di conflittualità e di sradicamento di Pagani al suo ebraismo, alle dinamiche inquiete e contraddittorie di quella particolarissima enclave libica da cui proveniva, nonché, infine, alla condizione archetipica dell’ebreo errante: appellativo attribuito peraltro a Pagani da André Bercoff (1976, p. 10, «juif errant par nécessité») e affettuosamente anche dalla madre negli ultimi tempi, quando lo sapeva in giro per il mondo (Arbib 2006, p. 57), ma altresì espressione/concetto generale che da sempre connota gli ebrei, per i quali il «movimento» o la «mobilità» è anche un fatto interiore (Jankélévitch 2007, pp. 7-37) e l’esilio dunque un fatto anche metafisico. La congenita tendenza dell’ebreo allo sradicamento («alla ricerca di una Gerusalemme chimerica che è dappertutto e da nessuna parte», Jankélévitch 2007, p. 28) porta uomini di luoghi e culture diverse a interessarsi fra loro e il suo congenito interesse per cose altre e altrove, rispetto all’ambiente in cui si trova, lo porta a essere «amico delle cause perse e contestate» (Jankélévitch 2007, p. 32). Si tratta di una tensione spirituale che nel cercare di risolvere le inquietudini da cui essa stessa scaturisce riverbera i propri elementi contradditori anche nell’ossessione antisemita.

…si arriva a rimproverare all’ebreo il suo cosmopolitismo, senza capire che esso è proprio ciò che preserva ogni uomo dal provincialismo della Città chiusa. Questi ebrei che suscitano l’inquietudine rappresentano insomma l’apertura della Città. Essi incarnano la «mobilitazione dell’immobile» o, meglio ancora, la mozione, perché è qui l’urto che è all’origine del movimento. Gli ebrei, che sono per se stessi il movimento, che sfuggono a se stessi, sono rispetto alle nazioni la mozione che inquieta, ma allo stesso tempo mantiene gli uomini in questa mobilità vitale essenziale alla condizione umana. Questa caratteristica – e questo è il rovescio della nostra particolarità indefinibile – ha per contraccolpo l’ossessione, anch’essa un po’ mistica, dell’antisemita. E l’antisemitismo diviene a sua volta per l’ebreo più che un’ossessione: è una ragione di perplessità continua. (Jankélévitch 2007, p. 16)

La presa di posizione riguardo alla questione arabo-israeliana da parte di Pagani avvenne con lo scritto musicato Plaidoyer pour ma terreArringa per la mia terra nel 1975, all’indomani della risoluzione ONU che assimilava il sionismo al razzismo e che Pagani avvertì, al contrario, come una rinascita dell’antisemitismo. Sulla scia di tale presa di coscienza, abbandonò progressivamente le canzoni per rivolgersi sempre più alla scrittura in prosa, in particolare quella del romanzo autobiografico Préhistoire d’amour, che lo avrebbe impegnato fino alla metà degli anni Ottanta,[4] e con cui egli riandava alle proprie radici affettive – ma anche artistiche – onde sciogliere certi «nodi» che continuavano a trascinarsi da quell’infanzia lacerata – «costanti inconsce su cui non avevo mai riflettuto» (Pagani 2010, p. 220). Ciò avveniva appunto sulla base del suo ritrovato ebraismo in opposizione al conflitto col mondo arabo e all’antisemitismo in generale.

Il fatto che sia una sorta di percorso a ritroso, quello che lungo il romanzo porta Pagani dalle ostilità fra arabi ed ebrei fino alle proprie radici personali, è testimoniato dallo spostamento all’inizio del volume della «postfazione» in cui egli aveva ricostruito il mileu sociale di Tripoli.[5] Nello scrivere il romanzo, prima di giungere a questo punto nodale che costituisce nel contempo un presupposto e una conclusione, Pagani aveva ritrovato i suoi sensi di contraddizione e straniamento nei tribolati anni dei collegi d’infanzia, ma anche nelle case abitate da adulto, quella della madre a Milano e quella francese di Montmartre, condivisa con la moglie negli anni Settanta, dove poi egli accoglieva continuamente ospiti di varie nazionalità (Pagani 2003, p. 390). A tale riguardo, il mito del «castello», nella sua fusione di fantastico e di medioevo, viene evocato da Pagani come luogo delle umane contraddizioni ma stavolta consolatorie – «Tours tourelles, bélvèderes et mille ponts les reliant. Des chambres pour tous, et une pour moi, pour m’isoler sans être seul. Y travailler, sans être distrait par la solitude. Pouvoir aller retrouver l’humain en cas de besoin» (Pagani 2003, p. 391).

Pagani in questi anni ritornò anche all’arte visiva, rievocata con fervido amore già nel long-playing Peintures (1975). In verità egli non l’aveva mai abbandonata del tutto, data la componente visiva di certi suoi spettacoli dal vivo, nonché la veste grafica dei suoi dischi che egli aveva sempre curato in prima persona. A partire dalla fine degli anni settanta, tuttavia, si dedicò con rigenerato entusiasmo a forme per lui nuove: assemblaggi in stile pop art, fatti di materiale povero e di riciclo, i metalli e gli intagli nel legno. Paiono spesso inquieti e disadattati, comunque alla ricerca di una identità, i personaggi che Pagani raffigura: dai volti art brut fatti con le scarpe, deformazioni talvolta disgustose e macabre che richiamano ancora l’incubo, fino al suo Autoritratto, che può essere elevato a vessillo di una incapacità a trovare unità e completezza nelle sue pulsioni e aspirazioni. Eppure, negli intagli con il legno proprio l’annoso tema della «città» pare risolvere quei problemi di horror vacui, di addensamento del materiale e dominio della forma presenti fin dai primi disegni – «ossessioni formali» come le chiamava lui stesso –, e raggiungere infine un’armonia costruttiva (l’autentica «pace del lavoro manuale» come la chiamerebbe lui) che obbediva alla ricerca/compensazione degli affetti smarriti nei luoghi della sua vita. Era sempre quella «casa d’amore» rincorsa per tanto tempo. «Ogni città è un insieme di case. Ogni casa che disegno potrebbe essere la Maison d’Amour che mi fu negata e che ricreo all’infinito. Più grande è la città, più ho chance di ritrovare la Maison d’Amour» (Pagani 2010, p. 220).

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Immagine 4: Gerusalemme (1983) (foto di Philippe Fresco).

Fra le varie città che Pagani intagliava nel legno, sono Milano e Parigi intuitivamente, quelle che più si pongono come maison d’amour ritrovate, dopo le sofferenze patite in gioventù tra Francia e Italia. Invece Bagdad e Gerusalemme (Immagine 4) sembrano stagliarsi a mo’ di emblemi della rinnovata identità ebraica di Pagani, non tanto quella religiosa, che gli apparteneva solo come spiritualità artistica («Ebreo e non credente, creare per me è la più naturale approssimazione a Dio», Pagani 1986, p. 158), bensì intesa come appartenenza, finalizzata a una pacificazione con i musulmani, come emerge anche dai tardi scritti di Pagani la Lettera ai fratelli, la Lettera aperta al colonnello [Gheddafi] e Gli ebrei del sole.[6] Altri scritti sulla pace e progetti artistici non furono terminati a causa della prematura scomparsa, avvenuta nel 1988 a Miami per una leucemia fulminante,[7] quando Pagani stava diventando un personaggio sempre più rappresentativo per gli ebrei di Libia e per Israele nel mondo (indicativa ai funerali, svoltisi a Tel Aviv, la presenza di Shimon Peres, allora ministro degli esteri).[8]

Per quanto l’accresciuta identità ebraica di Pagani lo inducesse vieppiù ad abbandonare l’attività di cantautore per dedicarsi alla prosa e all’arte visiva, non va dimenticato che era stata comunque l’esperienza con la musica e con la forma poetica della canzone a fargli maturare questa rinnovata sensibilità. In lui il problema ebraico si era manifestato già con la cover «Un capretto» nel 1965 (canto del teatro yiddish reso popolare già all’inizio degli anni sessanta da Joan Baez nella versione inglese «Dona dona» come inno pacifista di quella generazione) raggiungendo un punto nodale in Mégalopolis, per farsi sempre più eclatante in canzoni successive come «L’étoile d’or» (1974, in Les années de la rage et les heures de l’amour), «Les gens de nulle part» nel 1977, l’ultima canzone scritta da Pagani negli anni Settanta, e infine con l’ultima canzone francese, «Le grand pardon», nel 1982. La forma della canzone era stata un fulcro per una presa di coscienza della portata sociale del linguaggio poetico in generale. Se fu la recitazione di Plaidoyer pour ma terre, durante una tournée teatrale davanti agli ebrei di Francia fra il 1976 e il 1977, a indurre Pagani ad asserire che la poesia «non è solo una questione di lingua ma anche di circostanze» (Pagani 2003, p. 125) per altri versi la canzone «Vieux pére Hugo», scritta proprio quell’anno e dal carattere retrospettivo, testimoniava che in lui era stata comunque la dimensione del cantautore a caricare di funzioni sociali sempre più esplicite l’arte della parola appresa nel milieu letterario francese.

Ancora in Italia

Nell’ultima parte della sua carriera, Pagani aveva dismesso la veste del cantautore, ma non del tutto, e fu proprio quest’anima cantautorale mai sopita a rinsaldare il suo rapporto con l’Italia. Del resto, egli non lo aveva mai interrotto del tutto, né da un punto di vista personale né artistico. Negli anni Settanta, oltre al documentario Venise amore mio, partecipò allo sceneggiato Rai Marco Visconti in qualità di autore e attore. Dei suoi dischi francesi vennero fatte anche versioni italiane, seppure ridotte e spesso misconosciute, come nel caso di Megalopolis che uscì in Italia nel 1973 come disco unico senza ottenere notorietà. E tuttavia lo spettacolo teatrale-multimediale che Pagani aveva tratto da quel concept-album, e che aveva riscosso un grande successo al Palais de Chaillot di Parigi, venne rappresentato anche al Festival dei Due Mondi di Spoleto (in italiano, ridotto e riadattato col titolo Pitture e Megalopolis. Cantata ecologica in due parti). Seguì subito un album, Palcoscenico, con versioni italiane di alcuni successi francesi e la nuova «Da niente a niente».

Infine, all’inizio degli anni Ottanta, Pagani trovò ancora un contatto a suo modo significativo con la canzone d’autore italiana, in particolare nella collaborazione con l’esordiente Marco Ferradini. Pagani e Ferradini scrissero a quattro mani una manciata di canzoni per il concept-album di Ferradini Schiavo senza catene (1981). Fra queste, vi era la popolare «Teorema», ma anche una canzone rimasta a lungo inedita, «Fratello mio», in cui Pagani tocca un’ultima forte inquietudine, sua personale e sociale, quella dell’omosessualità. Forse era la più difficile da affrontare, perché a quel tempo l’omosessualità, ben più che un punto scottante, era un vero e proprio tabù culturale, e non solo in Italia. Il tema dell’omosessualità si inseriva a pieno titolo nei vari disagi e conflitti personali di Pagani anche in ragione dell’ovvio attrito con i suoi frequenti amori eterosessuali – si era anche sposato e aveva avuto un figlio, nel 1978. Fu ancora la scrittura di Préhistoire d’amour a offrirgli l’occasione per una presa di coscienza di questa problematica personale – che pare anzi costituisse una delle principali urgenze del libro. Nel capitolo Hanna, dedicato alla moglie, egli parla di se stesso non come di un «vero uomo» – «Plutôt un homanöide de sexe mascolin, qui est à l’homme ce que la chicorée est au café» – e riconduce la sua bisessualità, ancora una volta, alla sofferente infanzia divisa fra i genitori in contrasto:

Á six ans, l’âge où l’on a le plus besoin d’amour gratuit, j’étais déjà chargé de mission. Concilier les inconciliables. Être l’administrateur patient de deux haines conjuguées, Tenter de sommer deux amours contraires. J’avais beau refaire mes comptes, le résultat était toujours le même: 1 +1 = 0. De cette enfance aussi pitoyable qu’un mauvais feuilleton, il m’est resté une haine secrète pour ce que j’aime, un amour souterrain pour ce que je hais, un rejet total des mathématiques, un appétit méfiant pur les deux sexes […]. (Pagani 2003, p. 111)

Al di là delle ostilità fra i genitori, l’omosessualità di Pagani va interpretata anche alla luce del rapporto conflittuale con il padre – a fronte di quello protettivo della madre verso la quale sviluppò un complesso edipico pressoché inevitabile (Pagani 2003, pp. 390-391). Con il padre Herbert aveva litigato di continuo, a partire dall’infanzia fino alle soglie dell’età adulta, deludendo infine i progetti paterni:

«Quando ti iscriverai all’università? Che facoltà hai scelto?» Gli chiese un giorno il padre. «Mai, mai, nessuna università» ebbe il coraggio di rispondere, senza mezzi termini. «Finito, finito, capito? E non provarti ad alzare le mani, questa volta la mia reazione non sarebbe passiva. Sono un uomo e anche più forte di te. Non voglio laurearmi, va bene?» Quel giorno terminarono le botte. (Arbib 2006, p. 51)

Da un lato, dunque, l’omosessualità era uno dei nodi irrisolti della psicologia affettiva di Pagani che affondavano le radici nelle sue più intime e lontane esperienze personali e che iniziavano ad emergere solo negli ultimi anni. D’altronde, essa si scontrava anche con un forte pregiudizio sociale. Pagani ne parlò solo con quei pochi che riteneva davvero importanti nella sua vita. In pubblico non disse mai nulla, e così fecero i suoi amici. Del resto, Préhistoire d’amour era una confessione privata, concepita e scritta come strumento di liberazione psicologica. Alla fine Pagani decise di non pubblicarla, non tanto perché della sua omosessualità egli si vergognasse, ma perché a quel punto non gli interessava comunicarlo a persone estranee, né sentiva di doversi giustificare col mondo (pare inoltre che rispetto all’originale manoscritto, l’edizione del libro tuttora disponibile, pubblicata per iniziativa della ex moglie, riporti dei forti tagli proprio su questo argomento). Pagani ritrovava un’espressione omosessuale pubblica giusto negli aspetti di certi ritratti/assemblati degli anni ottanta in cui si scorge ora una femminilità distorta (Blues singer) ora una virilità ostentata e amputata: l’Autoritratto – sintesi estrema della non-adesione di Pagani a una identità definita e conformista.

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Immagine 5: Autoritratto (1986) (foto di Philippe Fresco).

Con «Fratello mio», il tema a lungo sommerso dell’omosessualità veniva descritto da Pagani finalmente in una canzone, per quanto con un linguaggio tenue e velato, stigmatizzando da un lato il forte senso di omofobia allora diffuso soprattutto in Italia, e richiamando, dall’altro, l’affinità con gli insegnamenti di amore e fratellanza propugnati da quella stessa mentalità cattolica che relegava l’omosessualità a pratica peccaminosa.

Fratello mio / chi lo sa perché
mi hanno insegnato ad avere paura di te.
Fratello mio / sono come te
se devo amare il prossimo quanto e più di me
comincerò con te.
Se è sbagliato amarti
così come t’amo io
voglio avere torto tutta la vita

«Fratello mio» è stata riadattata da Giovanni Danieli nel suo disco Senza fretta senza sosta del 1996. Proposta da Danieli anche al Festival di Sanremo di quell’anno, la canzone non venne tuttavia ammessa, a favore della più clamorosa «Sulla porta» di Federico Salvatore, incentrata anch’essa sul tema dell’omosessualità (Luzzato Fegiz 1996; Facci e Soddu 2011, p. 287). «Fratello mio» era stata scritta da Pagani e Ferradini per un disco di Pagani progettato e mai completato. I provini registrati da Pagani – quelli di «Fratello mio» così come di un’altra canzone che era in preparazione «Un letto in riva al mare» – sono tuttora in possesso di Ferradini (Bianchi 2014). Nel 2012 Ferradini ha inciso sia la versione originale di «Fratello mio», sia di «Un letto in riva al mare» (quest’ultima già incisa nel suo album Dolce piccolo mio fiore del 1996) nel doppio cd antologico La mia generazione, dedicato interamente a Herbert Pagani. Vi sono raccolte una ventina di canzoni, in italiano, fra quelle scritte a quattro mani dai due e quelle originali di Pagani, riarrangiate in chiave acustica. Partecipano vari musicisti cantanti e cantautori italiani oltre alla sorella di Pagani, Caroline, e Anna Jenček, collaboratrice di Pagani per lungo tempo.

Il progetto La mia generazione si inserisce fra le varie iniziative che recentemente si stanno diffondendo in Italia per ricordare e rivalutare la figura di Pagani, ed è stato strutturato anche come spettacolo dal vivo (la serata milanese del 26 gennaio 2014 è stata ripresa dalla Rai per la nota trasmissione Sorgente di vita curata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane).[9] Oltre all’esecuzione delle canzoni del cd, vengono recitati vari testi di Pagani e viene dato spazio ad alcune vive testimonianze. Queste ultime, dello stesso Ferradini, di Caroline Pagani e di Anna Jenček, si rivelano preziose anche per ricordare che Herbert Pagani non era un uomo così dolente e tormentato come può sembrare da molte delle sue opere e dagli aspetti biografici accennati nel corso di questo saggio. Era anche ottimista ed entusiasta, molto energico e in grado di infondere voglia di vivere in chi lo circondava – l’immagine fissata sulla copertina di Amicizia. Semmai era proprio la coscienza dei forti problemi della vita a generare questa energia, che si rivelava al fondo una capacità di resistenza. E se dunque egli sapeva anche essere molto spiritoso, di un’ironia addirittura al limite della comicità, si trattava di quella comicità – come ha ricordato Anna Jenček – che si può avere solo con una lacrima sul mondo.

Bibliografia

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Bianchi, Carlo. 2014. Herbert Avraham Haggiag Pagani. Dizionario Biografico degli Italiani vol. 80. <http://www.treccani.it/enciclopedia/herbert-avraham-haggiag-pagani_%28Dizionario-Biografico%29/>; ultimo accesso 19.10.2015

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Facci, Serena e Soddu, Paolo. 2011. Il Festival di Sanremo: parole e suoni raccontano la nazione. Carocci, Roma.

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Luzzatto Fegiz, Mario. 1996. «A Sanremo confessione gay. Per la prima volta il Festival proporrà, tra i big, un brano sull’omosessualità», in Il corriere della sera, 18 gennaio 1996.

Mila, Massimo. 1959. Cronache musicali 1955-1959, Einaudi, Torino.

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Pagani, Herbert. 1989b. Lettere, appunti, discorsi per l’ebraismo e la pace fra il 1970 e il 1988, a cura di A. Limentani Strambelli, tiratura speciale in occasione del Secondo convengo internazionale degli ebrei di Libia, Roma.

Pagani, Herbert. 1991. La scrittura della vita, a cura di A. Schwarz. Macef, Ferrara.

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Pagani, Herbert. 2010. Canzoni, scritti, disegni, sculture, a cura di R. Castellani. Barbés, Firenze.

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Santoro, Marco. 2010. Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore. Il Mulino, Bologna.

Soddu, Paolo. 2008. «Una festa subito finita. Il Sessantotto come fenomeno globale», in BresciaMusica, n. 110, p. 15.

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* Nella stesura del presente saggio ho potuto avvalermi della collaborazione di varie persone che furono vicine a Herbert Pagani. Desidero ringraziare in particolare Rosanna Castellani, Marco Ferradini, Anna Jenček e Caroline Pagani. Un ringraziamento anche al dott. Stefano Grigolato, bibliotecario dell’emeroteca Queriniana di Brescia, per il reperimento di alcuni materiali, e infine (o prima di tutto) a mio padre Maurizio per aver acceso in me qualche anno or sono l’interesse verso questo personaggio.

[1] Inclusa nel disco Il pianoforte non è il mio forte (1990). «Il testo è quanto di più idiota ci possa essere, perché a quel tempo erano tutti contenti», commentò lo stesso Baccini nel corso della relativa tournée. Il video della canzone stigmatizzava in modo ironico anche le manifestazioni canore di quel periodo, velatamente il festival di Sanremo.

[2] Oltre a nutrire una sincera ammirazione per Tenco, Pagani lo menzionò nella canzone «Da niente a niente» dedicata ai sacrifici del mestiere del cantautore in viaggio e all’impossibilità di fuggire da se stessi («Tenco mi passa per la gola / se invece della sua pistola / avesse preso il passaporto / forse non sarebbe morto»). Fu proprio Pagani inoltre a raccogliere l’ultima intervista rilasciata da Tenco, nel novembre 1966, in cui egli aveva manifestato forti insofferenze verso un certo modo di fare canzoni («Gigliola Cinquetti è una reazione di destra»). Intervista trascritta e pubblicata per la prima volta nel Numero Unico Secondo della rivista edita dal neonato Club Tenco di Venezia nel giugno 1969. Ripubblicata in vari libri successivi.

[3] Si veda la vivida testimonianza della madre di Pagani, Giulia Arbib (2006).

[4] Questo Roman autobiographique rimasto a lungo manoscritto è stato edito in Francia da Ramsay nel 2003. Alcuni estratti tradotti in italiano da R. Castellani si trovano in Pagani (2010, pp. 264-279). Castellani ha realizzato una traduzione integrale del libro tuttora inedita.

[5] Annota l’editore Ramsay: «L’ouverture de ce récit par une postface était bein un choix de l’auteur» (Pagani 2003, p. 9).

[6] Scritti recitati in pubblico, alcuni comparsi su importanti testate come Le monde o il Corriere della sera. Raccolti parzialmente in Pagani (1989a; 1989b; 2010, pp. 255-264).

[7] Alcune fonti riportano erroneamente Palm Beach (Florida) come luogo della scomparsa.

[8] Non trascurabile incarico di Pagani fu la nomina a direttore del Museo e del Centro mondiale del Giudaismo nordafricano a Gerusalemme nel 1987 (Pagani 1989a).

[9] Puntata trasmessa su Rai 2 il 9.2.14 <http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-97b10e19-ac3c-46ed-a6a4-bf35908a6dd2.html>; ultimo accesso 20.10.2015.