Maurizio Franco
mau.franco@tiscali.it
Abstract
L’articolo prende in esame la scena musicale del jazz e il mutamento globale che avviene nel ventennio che interessa gli anni Ottanta e Novanta sia a livello quantitativo che qualitativo. In primo luogo, vengono analizzati i diversi aspetti produttivi e fruitivi: ampliamento del pubblico, fiorire di festival, concerti ed etichette discografiche, incremento del numero di musicisti coinvolti; per quanto riguarda, invece, la dimensione qualitativa, incentrata sulla maturazione di poetiche nuove, si evidenzia un ampliamento del mercato che a sua volta consentì di svolgere professionalmente l’attività di jazzista, con una favorevole ricaduta sul miglioramento generale del livello degli strumentisti. L’insieme di questi aspetti porta a definire questi anni come un’epoca di Rinascimento del jazz italiano e permette di problematizzare il noto paradigma del “riflusso” e del disimpegno, anche culturale, con cui nella vulgata corrente viene designato il passaggio agli anni Ottanta.
In campo jazzistico, il ventennio che interessa gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso è il prodotto del profondo cambiamento avvenuto nel corso del decennio che lo ha preceduto in cui, sotto tutti i punti di vista, si verifica un mutamento globale della scena musicale del jazz, incidendo sul piano sia quantitativo, sia qualitativo.
Il primo aspetto si concretizzò in primo luogo nell’ampliamento del pubblico, in parte giunto a questa musica grazie all’affermazione del jazz rock o anche, in Italia, alla frequentazione di concerti con musicisti cosiddetti di avanguardia, conosciuti negli anni della contestazione, quando esisteva un discusso rapporto tra la musica e la politica. Questi nuovi fruitori, in gran parte giovani, costituivano un tipo di ascoltatore diverso rispetto a quello rappresentato dagli appassionati di più lunga data e contribuivano al cambiamento generale della proposta musicale. Naturalmente solo una piccola parte di coloro che frequentavano la scena jazzistica degli anni Settanta continuò a interessarsi di jazz dopo la fine delle lotte studentesche e il mutamento internazionale del panorama pop e rock, ma fu comunque sufficiente per rendere più eterogeneo e vasto il campo della sua fruizione. L’aumento dell’interesse verso i protagonisti della musica di derivazione africana americana si accompagnò all’emergere di nuove esigenze, tra cui quella di imparare a suonare; non a caso, proprio dalla seconda metà degli anni Settanta, il vuoto nell’educazione musicale non strettamente accademica portò alla nascita delle scuole popolari di musica e ai primi corsi di jazz. Un meccanismo aiutato dalla proliferazione dei concerti, dalla nascita delle radio private, o “libere”, come venivano chiamate prima di diventare semplicemente “commerciali”, coincidente con l’inizio del periodo dei grandi festival e dei raduni giovanili, che contribuì a far avvicinare al jazz tanti giovani non appagati dal semplice ascolto, ma appunto desiderosi di suonare. Questo, in tempi ragionevolmente brevi, portò all’incremento esponenziale del numero dei musicisti che – ed è questo il secondo aspetto della crescita quantitativa – fece diventare gli anni Ottanta una specie di Rinascimento del jazz italiano. In generale, l’ambiente ebbe una lussureggiante fioritura, con la proliferazione graduale, ma inarrestabile, di etichette discografiche indipendenti, di nuovi festival, di locali aperti alla produzione di musica dal vivo, in un quadro generale che si autoalimentò. Particolarmente evidente fu la maggior presenza del jazz su periodici, quotidiani e anche, grazie al citato avvento delle emittenti private, nei media radiofonici. Inoltre, proprio negli anni Ottanta, come sviluppo delle sperimentali esperienze organizzate di didattica, si cominceranno a raccogliere i primi, significativi frutti dell’insegnamento su larga scala.
Se quantitativamente la scena jazzistica ebbe quindi, e globalmente, un impensabile incremento, il secondo ambito, quello qualitativo, legato invece alla maturazione di poetiche nuove, diede risultati ancor più clamorosi, dovuti al fatto che l’ampliamento del mercato consentì di svolgere professionalmente l’attività di jazzista, con una favorevole ricaduta sul miglioramento generale del livello degli strumentisti. La continuità di lavoro, il maggior numero di musicisti, le opportunità didattiche furono tutti elementi che determinarono lo sviluppo della scena musicale e, quindi, la possibilità di veder nascere nuovi talenti e di far crescere progetti originali.
Questa maturazione fu ovviamente alimentata e ha essa stessa alimentato l’industria discografica indipendente cresciuta dalla seconda metà degli anni Settanta, finalmente in grado di offrire reali opportunità ai nuovi talenti, del tutto sconosciute nelle epoche precedenti, e ha trovato poi terreno per manifestarsi nella consistente crescita del numero dei concerti e delle possibilità di esibirsi dal vivo. Il forte aumento dell’attività didattica incise, invece, sul miglioramento delle conoscenze del linguaggio, portando, inoltre, a indirizzare il lavoro dei musicisti verso altre attività oltre a quella, praticamente sino ad allora esclusiva, del solo ambito performativo; tutto ciò offrì la possibilità di ampliare la base professionale dei jazzisti o di chi del jazz si occupa.
Questa situazione avviò un parziale processo di superamento di “sacche di dilettantismo critico”, in parte sostituito dall’avvento di una reale musicologia jazzistica, portando anche una generale, maggiore competenza e qualità nell’organizzazione degli eventi concertistici, finalmente in grado di ottenere un respiro internazionale. Qualcuno si sorprenderà di questo legame con quel periodo nuovo, di rinascita, rappresentato dagli anni Settanta, perché nella storia generale il nostro ventennio viene invece disegnato come l’epoca del riflusso e dello scardinamento scientificamente programmato proprio di quegli ideali e di quelle speranze maturati nella cultura del sessantotto; nella vulgata corrente gli anni Ottanta sono dipinti come il decennio del ritorno alla norma, del conformismo o della deviazione verso l’effimero, mentre negli anni Novanta si affermerà, come conseguenza di quella involuzione, ciò che si definisce l’antipolitica, accompagnata dal disimpegno e dal porre l’individuale al di sopra di tutto, favorendo la crisi totale dei valori. Ebbene, nel jazz non è stato così. Nel nostro paese, l’epoca presa in esame è stata foriera di una progettualità che ha determinato una maggior consapevolezza espressiva e, pur nel rispetto e nella conoscenza dei modelli tradizionali storici provenienti dagli Stati Uniti, ha portato al progressivo utilizzo di materiali di provenienza europea, legati al retroterra culturale dei musicisti italiani (il folclore, il pop, la musica di derivazione eurocolta, soprattutto novecentesca); un cambio di orientamento tra i jazzisti che ha dato vita a proposte di assoluta originalità e notevole varietà.
In questo contesto, la scena nazionale del jazz è diventata, per la ricchezza di idee e la qualità dei suoi esponenti, una delle più creative a livello internazionale perché è come se improvvisamente si fosse scoperchiato un vaso di Pandora rimasto chiuso sino a quel momento a causa della forte suggestione esercitata dalle grandi, ma anche un poco ingombranti, figure del jazz americano. In sostanza, in controtendenza con quanto avveniva in altri campi musicali, compresa una parte del jazz americano, l’Italia, ma in generale l’Europa jazzistica, stava quindi vivendo una condizione particolare, anomala, cioè stava consolidando un nuovo e originale percorso storico, affermando la legittimità a muoversi su coordinate proprie ed evitando di cadere vittima del riflusso. Quello che si venne a creare fu un ambiente dinamico e stimolante sia per i giovani musicisti, sia per quelli formatisi nelle generazioni precedenti agli anni Settanta, che in quel ventennio hanno trovato la piena maturità, realizzando straordinari percorsi artistici e raggiungendo il vertice della scena italiana e anche continentale. Molti tra i nuovi musicisti hanno invece rappresentato quella fascia intermedia di alto livello che era sempre mancata nel nostro paese, dando vita a un panorama compatto, a un corpo unico dalla proteiforme progettualità e dall’alto profilo.
Un altro punto di forza è legato al fatto che venne finalmente colmato il gap temporale tra la nascita di nuove tendenze in campo internazionale e la loro acquisizione nel nostro paese, unitamente allo sviluppo di progetti e di opportunità di suonare con musicisti dell’area europea e americana che consentirono di uscire dalla posizione gregaria del passato, nella quale, con poche eccezioni, gli italiani costituivano la ritmica dei solisti stranieri, soprattutto statunitensi, di passaggio nel nostro paese. Sul piano della proposta artistica, si giunse alla definizione di una linea che, a livello generale, tendeva a caratterizzare sempre più i jazzisti italiani come portatori di una serie di proposte originali, spesso fuori dal coro e immediatamente individuabili come diverse da quelle, all’epoca ancora decisamente egemoni, provenienti dagli Stati Uniti, dove peraltro stavano prepotentemente tornando alla ribalta le linee espressive più legate al modalismo anni Sessanta e alle correnti genericamente ascrivibili alla trasformazione del Bop avvenuta nel corso dei decenni.
Un quadro articolato, di impronta italiana
Da questo inquadramento generale, che funge da imprescindibile premessa, il complesso della scena jazzistica determinatasi negli anni Ottanta e Novanta evidenzia, pertanto, la presenza di un quadro articolato, costituito da diverse linee di tendenza, da filoni artistici eterogenei che, riassunti a livello generale, determinano una completezza d’insieme e una spinta verso la definizione di un modo originale e riconoscibile di intendere il jazz forse unici a livello europeo. Per la prima volta, l’Italia non occupava più una posizione periferica e poteva presentarsi come un vertice nel jazz del vecchio continente, superando nei fatti anche la sudditanza dal mondo americano. Tracciando a grandi linee il disegno degli orientamenti dei musicisti nazionali, si trova l’intensificazione dello sguardo alla musica eurocolta, non solo del Novecento, ma anche di altri periodi storici, con progetti che si spingono sino al modalismo rinascimentale e alla musica medievale. Si tratta di una linea in cui si propongono diverse declinazioni nel rapporto con i materiali europei, nella quale si spazia dal lavoro sulle forme compositive a quello con la musica elettronica e all’applicazione del serialismo inteso come cellula tematica, tutti elementi riscontrabili nelle poetiche di Giorgio Gaslini, Enrico Intra e Franco D’Andrea. oppure vengono condotte nella prassi jazzistica raffinate tecniche strumentistiche classiche, per esempio da Enrico Pieranunzi, Giancarlo Schiaffini e Bruno Tommaso, per giungere alle ispirazioni barocche e rinascimentali di Tino Tracanna e Corrado Guarino, a quelle trobadoriche di Roberto Bonati e, soprattutto, all’articolato mondo di Gianluigi Trovesi, il cui legame con la musica antica si unisce ancora oggi a quello con la musica popolare e a un folclore completamente ripensato, definibile come “immaginario”, inserito quale materiale tra i materiali nel suo riconoscibilissimo jazz. Proprio le musiche della tradizione popolare italiana, intese nella loro ampia definizione regionale, furono poi un altro elemento centrale della nuova scena italiana, in particolare di area centro meridionale, evidenziando una spiccata attenzione per colori, ritmi e melodie di impronta mediterranea. Questa direzione espressiva si è concretizzata in progetti molteplici, che ritroviamo in Pino Minafra come in Antonello Salis, in Gabriele Mirabassi quanto in Roberto Ottaviano, Bebo Ferra, nella reinvenzione della canzone napoletana in Maria Pia De Vito e, più in generale, nella suggestione esercitata dall’articolato universo folclorico italiano su molti nomi significativi del jazz nazionale.
Un elemento centrale – forse quello che a livello internazionale si avverte come il più legato all’italianità (e non solo nel jazz, ma da sempre nella storia della musica) – fu la particolare attenzione per il melos, evidente in Enrico Rava, ma anche in Paolo Fresu e in tanti altri musicisti. Questa predisposizione per la cantabilità delle frasi sembra unificare mondi diversi attraverso la chiarezza e la pulizia dei tratti melodici, con evidenti recuperi di arie dal melodramma e dalla canzone italiana che riflettono la consapevole ricerca di una melodia rispondente a canoni non americani. Ciò non significa comunque che nell’affrontare canzoni costruite in forma chorus, cioè simili a quelle dei song americani, si adotti sempre un atteggiamento straniante, lontano dai modelli originali; al contrario, molto spesso non si perde il legame con il procedimento tipico utilizzato dai jazzisti, nel corso della storia, nell’esecuzione dei brani di questa natura. Naturalmente, a questa impostazione si affianca un nuovo modo di concepire il pensiero melodico italiano, in particolare quello vocale, che consiste nell’utilizzarlo quale elemento sonoro specifico da integrare alla compagine strumentale come, per esempio, nelle produzioni di Paolo Damiani e in quelle di altri musicisti. Accanto a queste tendenze, in quel ventennio prese poi corpo una linea che si legava al jazz più radicale degli anni Sessanta e alla Free Music europea, inaugurata in Italia dal Gruppo Romano Free Jazz e poi sviluppata dai liberi improvvisatori degli anni Settanta, che porterà alla maturazione di giovani musicisti interessati a pratiche improvvisative svincolate dall’armonia funzionale e dalle strutture tradizionali. La libera improvvisazione troverà diverse incarnazioni; Enrico Intra la praticherà utilizzando anche l’immagine visiva cinematografica e il live electronics e come Giancarlo Schiaffini si lascerà ispirare dalla musica eurocolta del primo e secondo novecento, Stefano Battaglia costruirà le sue performances partendo da cellule tematiche e ben definiti climax espressivi, mentre i Nexus riprenderanno la musica di Don Cherry, dell’Art Ensemble Of Chicago e di altri esponenti della black culture statunitense, dando vita a un ambito creativo estremamente ampio, impossibile da restringere in una tendenza omogenea. Tutti questi musicisti hanno comunque mantenuto un legame tra le grandi proposte storiche del jazz americano e la loro musica, comprendendo che il rapporto con l’estetica jazzistica, di natura audiotattile, è fondamentale per restare all’interno di questo genere artistico pur utilizzando materiali eterogenei. Questo aspetto, cioè quello di rivendicare alla natura del jazz la possibilità di mantenersi ancorati alla sua prassi espressiva indipendentemente da come viene declinata, è l’espressione dell’autonomia, da parte del jazzista italiano e più in generale europeo, dai modelli rappresentati da immagini sonore storicizzate e pone giustamente sul tappeto il vero problema di fondo: la consapevolezza che il jazz possiede un’estetica precisa, in cui il trattamento particolare e audiotattile dei materiali consente l’utilizzo di molteplici fonti di ispirazione senza snaturare le sue caratteristiche di fondo. Un assunto che, in realtà, ci aiuta a comprendere la natura di “genere” di questa musica, in quanto la sua prassi contempla la possibilità di sviluppi e mutamenti in grado di non farle comunque perdere il contatto con la storia e l’unità del suo universo espressivo, cogliendo l’unità nella diversità, il simile nel diverso, per citare una felice affermazione di Vincenzo Caporaletti, che poi è proprio quello che sta consentendo al jazz di affrontare meglio di altre musiche la sfida musicale del nuovo secolo.
Se del ventennio in esame resta oggi qualcosa è, infatti, proprio la costante ricerca di stimoli sempre nuovi, che porta all’arricchimento delle proposte artistiche presenti in un mondo jazzistico che ha ormai quasi reciso completamente il cordone ombelicale con la madre americana. Questo non significa l’abbandono del passato, ma il suo ripensamento e quindi non sorprende che sui modelli afroamericani siano state inserite altre visioni, altri retaggi. Un musicista come Franco D’Andrea, per citare un caso ben noto, ha inserito una concezione poliritmica derivante dalla musica del West Africa nel rigore espressivo mitteleuropeo, ma per realizzare questa complessa operazione non ha dovuto rinunciare allo swing, così come un bilanciamento tra una visione europea e la moderna linea del jazz statunitense si trova anche in un altro musicista dalla poetica originale come Claudio Fasoli. Naturalmente in questo panorama non si può dimenticare che un gran numero di jazzisti è rimasto legato agli stili storici interpretandoli in maniera fresca e personale, gettando le basi per quello che si può definire come Modern o Contemporary Mainstream, a seconda di quanto vasta sia la sintesi tra i materiali e le procedure maturate nella storia del jazz, riuniti sotto il segno dell’attualità. Dal Dixieland al jazz rock, con tutto quello che ci sta in mezzo, soprattutto l’hard-bop aggiornato e i suoi sviluppi nel modalismo anni Sessanta, in quel ventennio tutta la storia del jazz è diventata un riferimento imprescindibile per un gran numero di nuovi musicisti, il cui antesignano è stato Massimo Urbani, enfant prodige negli anni Settanta e poi solista di livello internazionale nel decennio successivo. Da Flavio Boltro a Pietro Tonolo, da Maurizio Giammarco a Danilo Rea, dal citato Fresu a Paolo Birro, da Paolino Dalla Porta a Roberto Cecchetto, da Rita Marcotulli a Tiziana Ghiglioni, per fare solo alcuni nomi, sono numerosi i musicisti apparsi sulla scena nel ventennio analizzato; tutti quanti hanno contribuito a fecondare il terreno per coloro che, come Fabrizio Bosso o Stefano Bollani e Rosario Giuliani, si sono affermati nel ventunesimo secolo.
Ciò che comunque va tenuto in considerazione, al di là delle figure puramente esemplificative inserite in questa riflessione, è la duttilità dei protagonisti della nuova scena, la loro capacità di muoversi a tutto campo, di coniugare novità e tradizione, di sfuggire le rigide classificazioni stilistiche. Questa possibilità di sviluppare la creatività in diverse direzioni è stato l’antidoto migliore contro la caduta in ripetitivi stereotipi, la stanchezza dell’ispirazione e la sterilità dei remake. Un’ampiezza di vedute che ha portato soprattutto a un significativo, anche se non totale, superamento di quell’autoreferenzialità che aveva bloccato l’interscambio e la collaborazione tra musicisti delle generazioni precedenti.
Negli anni Ottanta e Novanta, pur con la presenza di gruppi di artisti uniti dalla condivisione di poetiche specifiche, la rigida separazione presente nel passato tra interpreti di differenti concezioni espressive è stata in buona parte superata, contribuendo alla maturazione del mondo musicale italiano. Un esempio di questa tensione collettiva si trova nell’esperienza dell’Italian Instabile Orchestra, una big band non tradizionale formata soltanto da solisti e compositori, che ha avuto in Pino Minafra, Giorgio Gaslini e Bruno Tommaso i suoi principali numi ispiratori. Questo fatto, in un paese sempre diviso in lobbies e campanili, rappresenta un passo avanti per la creazione di una comunità di artisti ancora di là da venire se intesa in senso letterale, ma certamente meno conflittuale se si pensa al percorso del jazz in Italia dal secondo dopoguerra in poi. Tutte queste esperienze, considerate nel loro complesso, sono il punto di partenza dell’eterogeneità dell’attuale paesaggio sonoro e anticipano i lavori delle ultime generazioni di musicisti, i cui riferimenti escono sempre più dall’ambito storico del jazz e dei grandi modelli del passato per partecipare al melting pot contemporaneo.
Conclusioni
Che cosa è rimasto in questo primo scorcio di millennio di quel ventennio così ricco di proposte e novità? Tralasciando le analisi sul mercato del jazz e restando legati al tema di questo intervento, che riguarda in primo luogo il pensiero artistico, pur in maniera contraddittoria si è affermata l’idea che il jazz si apre all’universo del possibile musicale più di ogni altra musica proprio in ragione dei suoi fondamenti estetici. Nonostante una didattica troppo spesso portatrice di valori del passato, il dinamismo e la curiosità si mantengono vivi anche oggi, anzi, si stanno sviluppando atteggiamenti espressivi meno vincolati agli stili storici, perché ci sono musicisti formatisi in un’epoca nella quale la musica entra in maniera multiforme nella vita di ognuno di noi offrendo un’ampia gamma di suggestioni e punti di riferimento. Così, oggi, il mito americano è ormai alle spalle e il jazz sta vivendo una stagione di ulteriori cambiamenti, diventando il catalizzatore per artisti provenienti dalle più diverse aree geografiche e culturali. In sostanza, si sono consolidate le linee e le concezioni emerse e sviluppatesi tra gli anni Ottanta e Novanta e a esse si sono aggiunte nuove poetiche, frutto di una società sempre più multietnica e policulturale. La strada cominciata si è dimostrata irreversibile e i suoi presupposti sono diventati il motore di una scena jazzistica in costante movimento e con lo sguardo proiettato verso il futuro.