Massimo Airoldi, Davide Beraldo, Alessandro Gandini
massimo.airoldi@unimi.it
ABSTRACT
L’avvento dei social media ha coinciso con un’enorme e crescente disponibilità di informazioni sulle pratiche di consumo di miliardi di ascoltatori di musica in streaming, immagazzinate e rese accessibili da varie piattaforme, tra cui la principale per numero di utenti e rilevanza è YouTube. Sebbene di musica ai tempi di Internet si sia già scritto molto in letteratura, finora è stato notevolmente trascurato il ruolo centrale dei recommendation systems – algoritmi che consigliano automaticamente all’utente che musica ascoltare o acquistare. Nel tentativo di colmare questa lacuna, questo articolo presenta un’indagine esplorativa delle associazioni tra brani e artisti musicali italiani anni Ottanta generate dal sistema di raccomandazione di YouTube – i cui suggerimenti si basano sui comportamenti di consumo aggregati degli utenti. Attraverso l’analisi induttiva di una rete di 68.727 video correlati in lingua italiana è stato possibile individuare e comparare 56 cluster di video musicali particolarmente associati tra loro, verificando come, in generale, siano interpretabili come vere e proprie “categorie folk” emergenti dalle pratiche delle collettività musicali che agiscono sulla piattaforma, mediate dall’azione del recommendation system. I risultati corroborano un dato solo apparentemente banale, che si presta ad ulteriori verifiche empiriche: la prossimità di due brani o artisti nel network dei video suggeriti dall’algoritmo di YouTube corrisponde a un’omologa vicinanza nel “campo semantico” degli ascoltatori.
Introduzione
Il concetto di network ha acquisito estrema popolarità in un gran numero di discipline scientifiche, scienze sociali incluse. Ogni campo del sociale, in quanto ontologicamente relazionale (Bourdieu 1993), costituito cioè da interazioni (spesso asimmetriche) tra i diversi elementi che lo compongono, può essere descritto attraverso l’euristica del network – dal funzionamento dell’economia globale (Castells 1996) e del mercato del lavoro (Granovetter 1985) alle identità postmoderne e digitalizzate (Papacharissi 2011), per arrivare anche alla produzione e ricezione musicale (Webb 2007; F. Holt 2007; Crossley 2008). Il sociologo e filosofo francese Bruno Latour, attraverso la sua elaborazione della controversa e affascinante prospettiva della cosiddetta «Actor-Network Theory» (Latour 2005), ha proposto una radicale «sociologia delle associazioni», proiettata oltre l’apparente staticità degli «attanti» (donne, uomini, oggetti, simboli) e rivolta piuttosto alla fluidità delle interconnessioni tra di essi, in costante movimento e ridefinizione. Prima ancora, l’antropologo Clifford Geertz descriveva la cultura di un popolo come una rete di significati reciprocamente associati e in continuo mutamento (1973). Questo tipo di approccio relazionale non è nuovo agli studi sulla popular music, implicitamente richiamata, tra gli altri, da Richard Middleton (Middleton 1990, p. 7) e, più esplicitamente, da Franco Fabbri, secondo il quale «nel campo semantico di una cultura i diversi generi musicali sono definiti reciprocamente dal fatto di occupare aree semantiche confinanti» e «il campo semantico può modificarsi nel tempo, nella misura in cui le convenzioni sociali, o codici, sono soggette a cambiamento» (Fabbri 2008, p. 71).
Questo studio riguarda un campo semantico ben preciso: quello rappresentato dalla musica italiana anni Ottanta su YouTube. Un campo che, in questo lavoro, fuor di metafora, è costituito da un network di video musicali tra loro collegati da parte del recommender system della piattaforma (Celma 2010) – l’algoritmo che consiglia agli utenti un elenco di video «simili» a quello che stanno visualizzando, allo scopo di venire incontro agli interessi e alle aspettative del pubblico «cliccante». Se all’apparenza può sembrare solo il prodotto artificiale di un sistema automatico, nella pratica questa rete è costruita sulla base dei comportamenti di consumo aggregati degli utenti. Infatti, secondo Bendersky e colleghi (2014), due video YouTube diventano related (correlati) – e dunque, a livello di network, viene stabilito un legame tra di essi – se sono stati guardati l’uno dopo l’altro un sufficiente numero di volte (co-views). I fattori intervenienti sono molti, ma principalmente umani e imbevuti culturalmente: il vedere diversi video musicali in successione non dipende unicamente dalla presenza dei video correlati, ma anche e soprattutto dalla fruizione tramite playlist,[1] così come dall’uso della search bar del sito. Due pratiche, queste, a loro volta influenzate (oltre che dai gusti degli ascoltatori) dalle categorizzazioni usate dagli uploaders per intitolare e descrivere i contenuti pubblicati: ad esempio, una stessa sinfonia di Beethoven potrebbe essere definita da utenti diversi come «musica rilassante» o «musica classica». Possiamo dunque ragionevolmente intendere le associazioni tra video musicali su YouTube come una miniatura – forse un po’ rozza e semplificata, ma ancora inesplorata – del posizionamento di brani, artisti e generi nel campo semantico condiviso da un pubblico. Il pubblico in questione è costituito da una buona fetta di quei venti milioni circa di italiani che utilizzano quotidianamente Internet e i social media,[2] e per i quali YouTube rappresenta la principale fonte di ricezione e scoperta di musica (Cayari 2011).
I vantaggi di questa prospettiva metodologica sono diversi: l’ampiezza dell’analisi (68.727 video musicali in lingua italiana, visualizzati in media 128.383 volte ciascuno); il focus sulle pratiche aggregate degli ascoltatori (di consumo, di categorizzazione) piuttosto che sulle rappresentazioni delle stesse; il carattere induttivo ed esplorativo, che punta a far emergere le categorie folk circolanti nell’immaginario dei pubblici musicali – un immaginario in cui le tecnologie di fruizione digitale e algoritmi come quello di YouTube giocano un ruolo sempre più cruciale (Sandywell e Beer 2005; Beer 2013; Fabbri 2008). Viceversa, il principale limite di questo lavoro va individuato nella natura mediata dei risultati che siamo in grado di offrire, inevitabilmente influenzati dalle «affordances» (Baym e Boyd 2012) della piattaforma e dalle pieghe di un recommender algorithm il cui esatto funzionamento non è mai stato rivelato pubblicamente nei dettagli.
L’idea di sfruttare le logiche «native» dei social media per produrre conoscenza riguardo a fenomeni culturali sta alla base del paradigma metodologico dei «Digital Methods» (Rogers 2013), che sta raccogliendo crescente attenzione e interesse, vista la progressiva penetrazione dei media digitali nel mondo e la conseguente prospettiva di una digitalizzazione delle scienze sociali (Orton-Johnson e Prior 2013). Le opportunità analitiche rappresentate dalla gigantesca disponibilità di dati digitali sono enormi, soprattutto per quanto riguarda l’analisi dei network online, i quali – secondo Latour (2005; Latour et al. 2012) – materializzano ciò che offline continua ad essere più intangibile (Latour et al. 2012): il continuo mutamento dei campi semantici, delle ragnatele di significati (Geertz 1973) sottese all’azione umana. Per dirla con le parole di Franco Fabbri:
non si tratta di costruire una classificazione, ma di comprendere le classificazioni esistenti, di osservare le loro trasformazioni, di ricavare – se possibile – alcune indicazioni teoriche generali sul loro funzionamento. […] non si tratta di discutere i taxa delle scienze naturali, in base ai quali la classe degli artropodi comprende quelle degli insetti e degli aracnidi, e i ragni dunque sono aracnidi e non insetti, ma le «categorie folk» del senso comune, in base alle quali un insetto è un piccolo essere fastidioso che può pungere, e poiché ciò si applica anche al ragno, un ragno può essere chiamato un insetto (Fabbri 2008, p. 122).
Questo studio esplorativo della musica italiana anni Ottanta su YouTube mostra come il network di video correlati (related-videos) analizzato, composto da quasi 70mila video musicali, si raggruppi in soli 56 cluster principali – gruppi di nodi strettamente collegati l’uno all’altro e debolmente legati ai nodi esterni (si veda Van Meeteren et al. 2010). Questi cluster si sono rivelati inaspettatamente omogenei nei contenuti: dodici riproducono fedelmente alcune specifiche scene musicali (Bennett e Peterson 2004) italiane, mentre i restanti sono perlopiù caratterizzati dalla convivenza di artisti stilisticamente simili. Nel commento ai risultati mostreremo come essi rappresentino vere e proprie «categorie folk» emergenti dalle pratiche delle «comunità musicali» che agiscono sulla piattaforma, mediate dall’azione dell’algoritmo di raccomandazione. Inoltre, attraverso l’analisi della rete, descriveremo le associazioni e il posizionamento reciproco tra diversi cluster all’interno di quello che possiamo intendere come un vero e proprio «network semantico» della musica italiana anni Ottanta (e non solo).
YouTube e l’ascolto in streaming
La popular music è la forma culturale digitalizzata per eccellenza, a livello di produzione, distribuzione e – soprattutto – fruizione. Lo sviluppo di servizi online che consentono l’ascolto illimitato, gratuito e on demand di musica in streaming ha cambiato le abitudini dei consumatori digitali, per i quali il «sentire la musica» assume i connotati di una pratica sempre più mobile, mediata (Prior 2014) e, molto spesso, di sottofondo (Fabbri 2005). Pressoché tramontata la (pur recente) era del file-sharing su Napster e relegata la materialità del disco a piccole comunità di cultori e appassionati, l’ascolto musicale è oggi sempre più dipendente dalla presenza di una connessione Internet. Se nel 1995 meno dell’1% della popolazione mondiale poteva vantare l’accesso alla Rete, a inizio 2014 si contano poco meno di tre miliardi di utenti nel mondo (40,4%), con in media oltre il 70% della popolazione dei cosiddetti «paesi sviluppati» online.[3] In Italia la media si abbassa al 58,5%, ma al contempo si registra un vero e proprio boom di Internet mobile: l’81% del tempo trascorso online dai 18-24enni nell’aprile 2015 è stato via smartphone.[4] La crescita generalizzata dell’utilizzo di Internet ha avuto immediate conseguenze sul mercato musicale, anche in Italia: la musica digitale è arrivata nel 2014 a coprire il 38% degli introiti dell’intera industria nazionale, e la rapida diffusione dello streaming ha determinato un inaspettato aumento dei ricavi del 4% nell’anno.[5] Con tutta probabilità la principale fonte di musica in streaming nel nostro Paese è YouTube (Magaudda 2014, p. 181). YouTube è una piattaforma web di condivisione video, nata nel 2005 e finita sotto il controllo di Google l’anno seguente. Con circa un miliardo di visite mensili e 300 ore di materiale audio-video pubblicate ogni minuto,[6] si tratta del terzo sito web più visitato nel mondo e in Italia. Dai videoclip ufficiali promossi dalle major alle autoproduzioni degli utenti (van Dijck 2009), passando per le registrazioni dei concerti live e le più svariate violazioni del copyright, su YouTube la musica è onnipresente, centrale per l’esperienza degli utenti così come per il business model del sito (Thelwall et al. 2012; Green e Burgess 2009; Cayari 2011). Certamente, rispetto a un servizio di streaming musicale puro (come ad esempio quello offerto da Spotify), una prima differenza sta nella convergenza audio-video: in un immaginario continuum, il consumo musicale su YouTube oscilla tra il forte coinvolgimento visuale suscitato, ad esempio, dal filmato di una performance dal vivo e la preminenza sonora di un video statico che presenta come unica immagine la copertina del disco (Holt 2011). Una seconda discontinuità sta nella prevalenza di user-generated contents (van Dijck 2009; Green e Burgess 2009), pubblicati da youtubers qualunque, corredati dalle loro «categorie folk» (Fabbri 2008) nei titoli e nei meta-testi, e potenzialmente commentabili e accessibili da parte di chiunque. Quest’ultima peculiarità, unita alla maggiore popolarità rispetto a piattaforme come Deezer e Spotify, rende YouTube un campo adatto per uno studio esplorativo «dal basso» della ricezione musicale contemporanea. Nel caso particolare della musica italiana anni Ottanta, il lavoro capillare di recupero, archiviazione e classificazione svolto dai prosumers di YouTube (Beer e Burrows 2013; Manovich 2009) ci consente di esplorare le rappresentazioni e l’immaginario contemporaneo associato a un’epoca.
L’esplorazione musicale e i sistemi di raccomandazione
La disponibilità senza precedenti di musica in ogni momento della vita quotidiana (DeNora 2000) ha cambiato anche le modalità di scoperta ed esplorazione di nuovi contenuti musicali (Rimmer 2012, p. 303). La fruizione musicale via Internet è caratterizzata dalla parziale automatizzazione di questi processi, con l’introduzione dei «sistemi di raccomandazione» o recommender systems (Celma 2010). I sistemi di raccomandazione sono un tipo di algoritmi utilizzati da siti e piattaforme web per suggerire contenuti personalizzati agli utenti. Sviluppatisi nei primi anni duemila in piattaforme di e-commerce come Amazon (Bolton et al. 2004), oggi si possono trovare in pressoché ogni sito web – quotidiani online, social networks e, specialmente, siti di intrattenimento come Netflix (Hallinan e Striphas 2014), Spotify e lo stesso YouTube (Davidson et al. 2010). Il loro funzionamento può seguire diversi criteri (cfr. Celma 2010): solitamente i consigli automatici sono generati sulla base di informazioni relative a) ai contenuti stessi (ad es., tutti i brani pubblicati col tag «rock»), b) al comportamento online del singolo utente (ad es., i brani che ha ascoltato recentemente) o c) di tutti gli utenti (ad es., «chi ha ascoltato Eric Clapton ascolta anche B.B. King»). Il recommender algorithm di YouTube ricorda quest’ultimo caso. Come documentano gli stessi ricercatori di Google (Bendersky et al. 2014), l’attuale formulazione del sistema di raccomandazione di YouTube prevede che due video diventino correlati in presenza di un numero elevato di co-views (visualizzazioni in sequenza, l’uno dopo l’altro). La lista di venticinque suggerimenti proposta a lato di ogni video su YouTube è dunque il prodotto dei comportamenti di consumo aggregati degli utenti, in combinazione con i video «consigliati per te», basati invece sulle abitudini di navigazione del singolo utente[7] (Bendersky et al. 2014, p. 2). La rete di associazioni tra video musicali correlati su YouTube equivale dunque a una fonte senza eguali di informazioni sulle pratiche quotidiane di ascolto digitale di milioni di utenti, non osservabili nella loro singolarità ma semmai inferibili dal loro esito (mediato dall’algoritmo) – come il suggerimento di «Lucille» di B.B. King in prossimità di «Drifting Blues» di Eric Clapton (vedi fig. 1). A livello delle pratiche degli utenti, le visualizzazioni in sequenza possono derivare dalla navigazione tramite search bar, dall’ascolto di una playlist (verosimilmente blues, in questo caso), dall’esplorazione dei video di uno specifico canale YouTube e, ovviamente, dallo stesso cliccare sui video suggeriti. Ma più che la materialità delle pratiche, qui a interessarci è il campo semantico che le sottende: il retroterra culturale che ha portato molti utenti diversi a inserire «Lucille» e «Drifting Blues» nella medesima playlist su YouTube, e molti di più a cercarla e ad ascoltarla. In ultima istanza, proprio questo è l’oggetto del nostro studio, qui declinato nel caso specifico della musica italiana anni Ottanta.
Figura 1: I suggerimenti correlati al video musicale «Drifting Blues – Eric Clapton».
Sebbene alcuni anni fa Franco Fabbri avesse definito i sistemi di raccomandazione musicale online come «una delle novità più significative nei processi sociali di categorizzazione» (2008, p. 129), sottolineandone la potenziale valenza scientifica per i popular music studies (Ivi, p. 130), a oggi non si registrano studi sul tema, almeno nelle scienze sociali. Esiste una recente letteratura critica in merito all’accresciuto potere degli algoritmi sulla nostra vita, online e non solo (Beer 2009; Cheney-Lippold 2011; Hallinan e Striphas 2014; Striphas 2015), ma mancano ricerche empiriche mirate a sfruttare le informazioni elaborate dagli algoritmi per indagare a livello macro i processi di consumo e di significazione in azione sui social media. Sebbene questo studio presenti diversi limiti – come il campionamento non statisticamente rappresentativo e l’incertezza derivante dal fatto che l’esatta formulazione dell’algoritmo di YouTube non sia mai stata resa pubblica nei dettagli – tuttavia, essa ambisce a colmare questo vuoto in letteratura, rappresentando un passo in avanti proprio in questa direzione teorico-metodologica.
Metodologia
L’obiettivo di questo studio è esplorare il campo semantico della musica anni Ottanta su YouTube, attraverso una network analysis delle associazioni tra video musicali determinate dal recommender system della piattaforma – e dunque, in ultima istanza, dalle pratiche condivise degli utenti (Bendersky et al. 2014). La principale premessa teorica è rappresentata dalla sempre più pressante necessità di studiare in modo induttivo e «dal basso» i processi di categorizzazione e di boundary drawing in atto nella sfera culturale, musicale in primis (Beer 2013; Bryson 1996; Fabbri 2008; Rimmer 2012; Savage e Gayo 2011). Il rischio, altrimenti, è quello di trattare generi e categorie culturali come fatti «naturali» (DiMaggio 1987, p. 441) e non, più propriamente, come il prodotto sociale storicamente transitorio di un campo relazionale e in continuo movimento (Middleton 1990, p. 7).
La progressiva digitalizzazione dell’ascolto musicale, unita alle enormi quantità di informazioni su categorizzazioni e consumi culturali osservabili online (Latour et al. 2012), rendono lo studio dei social media un’opportunità unica per l’avanzamento dei popular music studies (si veda Beer 2012). Il paradigma metodologico qui adottato è quello dei «Digital Methods» (Rogers 2013), secondo cui le caratteristiche del web 2.0 consentono di sfruttare questo campo per lo studio di fenomeni socio-culturali di carattere generale, prescindendo cioè da una visione dualistica tra online e offline, in considerazione della crescente integrazione tra i due domini (Jurgenson 2012). Ciò è possibile essenzialmente sfruttando le logiche «native» dei media digitali. Nel nostro caso, l’imperativo «follow the medium» (Rogers 2013) si è concretizzato nell’analisi del dataset relazionale prodotto dal sistema di raccomandazione di YouTube, accessibile tramite l’interfaccia API[8] della piattaforma. Grazie a uno script in linguaggio Python è stato possibile scaricare metadati relativi a 68.727 video musicali tra loro collegati da 70.582 legami. Partendo da un campione iniziale di 1337 video musicali in lingua italiana raccolti il 19/11/2014 e contenenti la keyword «198*» – e dunque facenti riferimento al decennio 1980-1989 – abbiamo a) raccolto di ciascun video i 25 video collegati, come in una sorta di campionamento snowball (Browne 2005); b) ripetuto nuovamente la procedura sul campione risultante, al fine di estendere la porzione di rete considerata; e c) filtrato unicamente i contenuti appartenenti alla categoria «musica» di YouTube.
I metodi d’analisi utilizzati sono la network analysis – approccio che registra crescente successo anche in sociologia culturale e nei popular music studies (si veda Crossley et al. 2008; Lizardo 2013) – e l’analisi del testo (Tipaldo 2014). In primo luogo, è stato isolato un numero limitato di cluster all’interno del network, ossia gruppi di nodi (video) densamente associati tra loro e debolmente associati con l’esterno; è seguita poi l’esplorazione delle parole più frequenti nei titoli dei video in ciascuno dei cluster. Questa strategia metodologica ci ha consentito da un lato di mettere in luce le diverse categorie di musica italiana anni Ottanta emergenti dal network a partire dalle pratiche degli youtubers e, dall’altro, di analizzarne qualitativamente e induttivamente i contenuti.
Risultati
I cluster di video correlati
L’analisi del network ci ha restituito un totale di 69 cluster. Per poterne confrontare i contenuti, abbiamo escluso dall’analisi 13 cluster quantitativamente marginali. Il sample finale è dunque composto da 68.628 video, distribuiti in 56 cluster composti in media da 1225 video ciascuno. La figura 2 mostra una panoramica dell’intero grafo, elaborata con il software Gephi:[9] i colori stanno ad indicare i diversi cluster di video musicali.
Figura 2: La rete complessiva del campione di video correlati. I colori indicano la presenza di diversi cluster.
Attraverso l’analisi delle dieci parole[10] più frequenti nei titoli dei video appartenenti ai singoli cluster è stato possibile ricostruirne qualitativamente i contenuti, verificando così il grado di omogeneità interna e l’eventuale corrispondenza con generi o scene musicali specifiche. Per evitare di nominare i cluster con le nostre categorie «etiche» di ricercatori (Fabietti 2001, p. 201), li abbiamo rinominati usando le parole più utilizzate dagli utenti stessi nei titoli. I 56 cluster si sono rivelati generalmente omogenei a livello di contenuti. In tredici casi tutti i video condividono almeno una parola tra le dieci più occorrenti nei titoli, mentre solo in undici cluster le dieci parole più frequenti sono condivise da meno del 60% dei video. La figura 3 presenta tutti e 56 i cluster analizzati (le dimensioni delle etichette sono proporzionali al numero di video che li compongono).
Figura 3: I 56 cluster (le dimensioni delle etichette sono proporzionali al numero di video).
Esplorando qualitativamente i contenuti dei cluster si può notare come, oltre a una maggioranza di artisti e di scene musicali tipicamente anni Ottanta, compaiano nel campione anche nomi riconducibili agli anni Novanta e duemila. Questa è una diretta conseguenza del campionamento a valanga (Browne 2005), e ci dà almeno due informazioni: la prima è che, come ipotizzabile, la maggioranza degli utenti YouTube che ascoltano artisti italiani contemporanei non disdegnano la musica anni Ottanta e viceversa (se così non fosse, 883, Ligabue e Antonacci non sarebbero presenti nel campione); la seconda è che questi percorsi d’ascolto transgenerazionali sono molto meno comuni di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, dato che gli artisti non attivi negli anni Ottanta sono isolati in pochi cluster debolmente collegati con l’esterno. La rilevanza di un tipo ascolto «generazionale» sembra trovare conferma anche in una recente ricerca condotta negli Stati Uniti utilizzando dati del servizio di musica in streaming Spotify.[11] Prevedibilmente, il cluster al primo posto per numero medio di visualizzazioni (824.734) è quello che raggruppa le recenti hits di Ligabue, Nannini e Antonacci – le quali, non a caso, sono le più «native digitali» dal punto di vista della promozione discografica. Come si nota dalla figura 4, alla fine della coda lunga che caratterizza la distribuzione delle visualizzazioni per cluster, si scende a una media di 12.199 visualizzazioni, raccolte da video di jazzisti come Massimo Urbani e Eddy Palermo («Jazz 80’s»).
Figura 4: I 56 cluster ordinati per numero di visualizzazioni medie dei video.
Gli uploaders sono 19.611 in totale e hanno pubblicato in media circa 3,5 video ciascuno. Solo il 5,3% degli account (1036) ha caricato più di 10 video presenti nel campione, mentre la netta maggioranza degli utenti (64%) è autrice di un video soltanto. Nei prossimi paragrafi passeremo in esame le diverse tipologie di cluster emerse dall’analisi del network, iniziando con i risultati meno prevedibili: quelli legati alle scene musicali underground.
Dall’afro al punk: cluster e scene musicali
Bennett e Peterson definiscono le scene musicali come «cluster di produttori, musicisti e fan che collettivamente condividono i loro gusti musicali distinguendosi dagli altri» (2004, p. 1; trad. aut.). È interessante notare come almeno 12 dei 56 sottogruppi di video musicali emersi dall’analisi del network – i nostri cluster, appunto – ricalchino alcune importanti scene musicali italiane, più o meno underground.
Figura 5: Le wordcloud riportano le 10 parole più frequenti nei titoli dei video dei seguenti cluster (da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso): Afro 80’s, Progressive Rock, CCCP-CSI, Jazz 80’s, Litfiba-Diaframma, Punk 80’s. Le dimensioni delle parole sono proporzionali alla loro frequenza.
Il cluster «Afro 80’s» è una fedele miniatura della scena afro sviluppatasi a fine anni Settanta in alcuni club del Centro-Nord Italia, tra i quali il Cosmic di Lazise (VR) e il Melody Mecca di Rimini – tra le parole più menzionate nei titoli dei video (vedi fig. 5). Si tratta perlopiù di mix dal vivo risalenti agli anni Ottanta e realizzati principalmente da due dj: Daniele Baldelli, considerato uno dei principali esponenti del genere in Italia,[12] e Antonio Lusi – uploader di 63 dei 302 video appartenenti al cluster. Banco del Mutuo Soccorso, PFM e Le Orme monopolizzano il cluster denominato «Progressive Rock», certamente più proiettato verso i «70s», che comprende al suo interno anche performance di Area e New Trolls e, meno prevedibilmente, qualche isolata canzone di Riccardo Del Turco e Mimmo Locasciulli. Sui 56 cluster analizzati, solo qui la parola «album» risulta essere tra le 10 più occorrenti, a testimoniare il tipo di ascolto «colto» che contraddistingue il prog. Il cluster «CCCP-CSI» include, oltre alle due band emiliane, anche diversi lavori da solisti degli ex componenti e alcuni brani dei Punkreas. «Jazz 80’s», come anche «Afro 80’s», è marcato da un’identità di genere molto forte, evidente nella wordcloud di figura 5. Comprende composizioni e esibizioni live di alcuni protagonisti del jazz italiano dell’epoca come Massimo Urbani, Eddy Palermo, Flavio Boltro, Franco D’Andrea, ma anche del sassofonista statunitense Steve Grossman (con cui hanno collaborato sia Boltro che Urbani) e di un giovane jazzista come Francesco Cafiso. Vi è poi la scena new wave fiorentina di Litfiba e Diaframma, correlata non a caso coi video di Mario Venuti e dei suoi Denovo – i quali pubblicano il loro primo album nel 1985 proprio con un’etichetta indipendente di Firenze, la Kindergarten (la stessa dei Neon, che compaiono a loro volta in 9 video). Curiosamente, il cluster comprende anche un buon numero di video dei distantissimi Modà: un caso interpretabile forse ipotizzando un certo numero di ricerche errate della quasi omonima band Moda, new wave e fiorentina doc. Il cluster seguente (fig. 5) è tipicamente anni Ottanta/Novanta e comprende molti esponenti della scena punk e hardcore del Centro-Nord Italia, come Skiantos, Kalashnikov, Indigesti, Negazione, Kina, Peggio Punx, Nabat. Meno caratterizzati cronologicamente sono invece i rimanenti 6 cluster (fig. 6). «Hardcore Rap» riunisce i video musicali di diversi dj e freestyler della scena hip hop underground italiana, dagli anni Ottanta a oggi; quelli più menzionati nei titoli sono, nell’ordine: Felce, dj Enzo, Primo dei romani Cor Veleno, Gemitaiz, Vashish, Murubutu, Ensi, Noiz Narcos. I vocalist e dj Lady Brian, Igor S e Franchino sono il fulcro del cluster successivo, il quale ripercorre alcuni luoghi e i nomi simbolo della scena house-trance italiana anni Novanta, e in particolare della sua articolazione jesolana (molti i video di live mix presso la storica discoteca «Aida», demolita nel 1996). Anche l’indie italiana contemporanea di The Zen Circus, I Cani, Lo Stato Sociale e dei più storici – poi rinati – Massimo Volume forma un cluster a sé, così come la napoletana neomelodica d’annata di autori come Nino D’Angelo, Gianni Celeste, Tommy Riccio, Mauro Nardi.
Figura 6: Le wordcloud riportano le 10 parole più frequenti nei titoli dei video dei seguenti cluster (da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso): Hardcore Rap, House-Trance, Indie Rock, Neomelodici, Rock di Destra, Blues Rock. Le dimensioni delle parole sono proporzionali alla loro frequenza.
Tra le scene musicali che emergono spontaneamente dall’analisi del network dei video correlati spicca quella che ripercorre la storia del rock italiano di destra, dagli esordi negli anni Settanta (con Amici del Vento, Compagnia dell’Anello e ZPM) alle sue propaggini odierne, immortalate anche nel documentario Nazirock di Claudio Lazzaro (270bis, Skoll, DDT). L’ultimo cluster rappresentato nella figura 6 si aggrega intorno ai video di interviste e di performance dal vivo realizzati dalla rivista online Il Blues Magazine, i quali coinvolgono band e artisti emergenti della scena blues-rock nazionale (There Will Be Blood, The Cyborgs, Elli De Mon, BagaMojo) e non solo (Spencer Bohren).
Questi risultati non vanno letti semplicemente come una parziale e superficiale panoramica su alcune importanti scene musicali sviluppatesi in Italia dagli anni Settanta a oggi. Essi vanno interpretati a partire dal metodo attraverso cui singoli video musicali vengono messi in relazione l’uno con l’altro da parte del recommender system di YouTube, ossia sulla base del numero di visualizzazioni in sequenza da parte di numerosi utenti (Bendersky et al. 2014). I video visualizzati più frequentemente l’uno in seguito all’altro sono particolarmente associati tra loro, e vanno dunque a formare cluster diversi all’interno del network. L’esistenza di cluster che corrispondono così fedelmente a scene musicali specifiche ci suggerisce dunque la persistenza di «comunità di gusto» ben definite, gruppi di ascoltatori legati a particolari generi musicali e subculture. Se a livello delle traiettorie individuali sulla piattaforma il gusto dell’utente potrebbe essere effettivamente «onnivoro» (Peterson e Kern 1996), i suggerimenti prodotti dall’algoritmo vanno a considerare la somma dei comportamenti dei singoli, e ne intercettano così i percorsi condivisi collettivamente. Nella pratica, ciò si traduce nel fatto che esponenti centrali dell’alternativa musicale rock anni Ottanta, come CCCP, Litfiba e Skiantos, si posizionino in diverse porzioni del network, in quanto ritenuti (a ragione) stilisticamente differenti da parte degli youtubers. Ciò non vuol dire, però, che la struttura del grafo dei video correlati non possa cambiare nel tempo, seguendo le evoluzioni del campo semantico musicale condiviso dal pubblico: alcuni artisti potrebbero essere «sdoganati», ed entrare in circuiti di fruizione più mainstream; altri potrebbero invece essere rivalutati come «di culto» da parte di specifiche nicchie di consumo, e spostarsi gradualmente verso cluster più periferici. In sintesi, i nostri risultati corroborano un dato solo apparentemente banale: la vicinanza nel network dei video suggeriti dall’algoritmo di YouTube corrisponde a una vicinanza nel campo semantico degli ascoltatori.
Musica pop, televisione e cantautorato
Se i 12 cluster descritti sopra riproducono scene subculturali e musicali più o meno underground, i restanti 44 rientrano quasi in toto nel grande calderone del pop italiano; il quale, molto spesso, va a braccetto con l’universo televisivo. Si tratta di una tendenza particolarmente evidente nei cluster «Sanremo 80’s», «Sigle cartoni-883», «Rettore-Carrà» e «Zecchino d’oro» (vedi fig. 7). Il primo è composto principalmente da esibizioni dal vivo registrate durante le edizioni anni Ottanta del Festival di Sanremo, cui presero parte tutti gli artisti più menzionati nei titoli dei video, meno due: Luca Carboni e Julio Iglesias – entrambi in cima alle classifiche del periodo. Il secondo offre una suggestiva sintesi dell’immaginario di quella generazione di italiani nati negli anni Ottanta e cresciuti a pane e Mediaset, tra il programma per ragazzi Bim Bum Bam, le sigle dei cartoni animati interpretate da Cristina D’Avena e le colonne sonore preadolescenziali di 883 e Gem Boy. Nei titoli dei video del cluster «Rettore-Carrà» spiccano i riferimenti a Domenica In e a tre importanti interpreti femminili del pop «danzereccio» anni Ottanta: Raffaella Carrà (conduttrice di Domenica In nel 1986-86), Donatella Rettore e Giuni Russo. Infine, i video d’epoca dello Zecchino d’Oro si associano prevedibilmente a quelli del Piccolo Coro Antoniano, alle ninnenanne e alle canzoni per bambini.
Figura 7: Le wordcloud riportano le 10 parole più frequenti nei titoli dei video dei seguenti cluster (da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso): Sanremo 80’s, Sigle cartoni-883, Rettore-Carrà e Zecchino d’Oro. Le dimensioni delle parole sono proporzionali alla loro frequenza.
Mentre i video musicali di alcuni artisti molto amati formano cluster ad hoc (Pooh, Paolo Conte, Vasco Rossi, Lucio Battisti, Pino Daniele, Eduardo De Crescenzo, Renato Zero, I Nomadi, Franco Califano, Zucchero), altri – associati dalle playlist e dai gusti di molti utenti – convivono in uno stesso cluster. È il caso di accoppiate più o meno storiche come Gaber e Jannacci, Ornella Vanoni e Gino Paoli, Dalla e De Gregori, Baglioni e Venditti, Claudio Villa e Gabriella Ferri. Altri abbinamenti però si dimostrano meno scontati, e le loro radici possono solo essere ipotizzate: una vicinanza stilistica e generazionale (Celentano coi Ricchi e Poveri; Ligabue-Nannini-Antonacci) così come politica (Guccini, Vecchioni e De André; Concato, Bertoli e Mannoia); l’adesione ad un cantautorato alternativo (Ivan Graziani e Stefano Rosso), orecchiabile e irriverente (Edoardo Bennato e Rino Gaetano) o «alto» (Battiato, Fossati e Finardi); le straordinarie doti canore (Mia Martini con Loredana Bertè e Mina; Patty Bravo con Domenico Modugno) o l’orgoglio meridionale (Vincenzo Spampinato e Gigi d’Alessio). I contenuti dei cluster «Pop 80’s» (che include video di autori e interpreti come Franco Simone, Gianni Togni, Umberto Tozzi, Riccardo Fogli, Michele Zarrillo e Pupo), «Masini-Bosè-Ferradini», «Marcella Bella-Gianni Bella» e «Mango-Matia Bazar» gravitano tutti nell’ambito della canzone italiana anni Ottanta/Novanta. L’estetica «80’s» sembra invece essere l’unico collante di cluster eterogenei come «Caputo-Gruppo Italiano», «Michael Jackson-Symbiosi» e «Ruggeri-Queen-Camerini». «Musica Bandistica» è interamente costituito da video di fanfare e cori militari (principalmente di Alpini e Bersaglieri), mentre «Cristiana contemporanea-Liscio» unisce video di orchestre di liscio e canzoni religiose contemporanee di autori come Albino Montisci, offrendoci dunque uno sguardo sul repertorio di una «comunità musicale» (Fabbri 2008, p. 122) che, con tutta probabilità, «nativa digitale» non è. «Karaoke-Crooners» ha come file rouge la voce di grandi crooners come Umberto Bindi e Nicola Arigliano e i video musicali con i testi in sovraimpressione, per provare ad emularne le gesta canore. L’unico cluster che si spinge oltre i confini della popular music è «Opera-Classica», il quale aggrega celebri arie d’opera, concerti di musica classica e brani dell’ensemble Rondò Veneziano. I pochi cluster rimanenti («Paola Turci-Piero Marras»; «Clarinetto-Dori Ghezzi», «Branduardi-Quartetto Cetra-Ivan Cattaneo», «Anna Oxa-Elio e le Storie Tese») sono gli unici che non lasciano intravedere alcuna logica che ci consenta di spiegare culturalmente le pratiche di visualizzazione in sequenza degli ascoltatori. Tralasciando questi casi, i cluster analizzati possono essere intesi come la versione mediata delle categorie folk circolanti nell’immaginario musicale contemporaneo – in quanto generate dal recommender algorithm di YouTube sulla base delle pratiche quotidiane delle comunità musicali che agiscono sulla piattaforma.
Il network semantico
La visualizzazione di figura 8, realizzata attraverso il software di network analysis Gephi, ci permette di osservare le relazioni che intercorrono tra i diversi cluster del network. La dimensione dei caratteri è proporzionale al numero di video appartenenti al cluster, mentre lo spessore dei legami indica il peso delle associazioni. «Blues Rock», «House-Trance», «Michael Jackson-Symbiosi», «Hardcore Rap», «Jazz 80’s», «Rock di destra», «Afro 80’s» sono isole quasi totalmente scollegate dal resto del grafo. I cluster caratterizzati dal numero più alto di legami sono invece, rispettivamente, «Sanremo ‘80», «Martini-Bertè-Mina», «Anna Oxa-Elio e le Storie Tese», «Pop 80’s», «Pooh» e «Dalla-De Gregori».[13] Alla luce dei risultati dell’analisi esplorativa del contenuto possiamo considerare quello di figura 8 come una sorta di «network semantico»: una mappa, statica e semplificata, delle relazioni che costituiscono il campo semantico della musica italiana anni Ottanta su YouTube, che ora andremo brevemente a esaminare.
Figura 8: La rete delle associazioni tra cluster di video musicali (le dimensioni dell’etichetta sono proporzionali al numero di video appartenenti al cluster; lo spessore dei legami ne indica l’intensità).
La tabella 1 riporta i primi venti legami più forti tra cluster, pesati così da renderli confrontabili. «Sanremo 80’s» risulta essere il nodo più centrale ed il principale collegamento di gran parte dei cluster mainstream. Al contempo, artisti storicamente meno legati ai circuiti televisivi – Paolo Conte, Pino Daniele, I Nomadi, Francesco Guccini insieme a Roberto Vecchioni e Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci – tendono ad associarsi prevalentemente tra loro, creando una sorta di scena parallela. Quello tra «I Nomadi» e «Guccini-Vecchioni-De Andrè» è il quarto legame più intenso della rete, e ci rivela un’inaspettata comunanza di pubblici – più prevedibile nel caso di «CCCP-CSI» e «Litfiba-Diaframma». L’analisi dei legami ci rivela che i raggruppamenti meno chiari – «Anna Oxa-Elio e le Storie Tese», «Paola Turci-Piero Marras», «Ruggeri-Queen-Camerini», «Caputo-Gruppo Italiano», «Branduardi-Quart. Cetra-Cattaneo», «Clarinetto-Dori Ghezzi» – hanno tutti come principale collegamento il cluster sanremese, e dunque possono essere verosimilmente interpretati come propaggini di «Sanremo 80’s». Strettamente legato a quest’ultimo e analogamente posizionato al centro della rete è anche «Martini-Bertè-Mina», che rappresenta l’associazione più forte per ben 12 cluster: «Patty Bravo-Modugno», «Rettore-Carrà», «Baglioni-Venditti», «Concato-Bertoli-Mannoia», «Mango-Matia Bazar», «Ornella Vanoni-Gino Paoli», «Renato Zero», «Battiato-Finardi-Fossati», «Bennato-Gaetano», «Lucio Battisti», «Ligabue-Nannini-Antonacci», «Claudio Villa-Gabriella Ferri». Sembra quasi che Mia Martini e colleghe facciano da ponte tra la nobiltà della musica leggera italiana delle ultime sei decadi e il pop minore rappresentato da «Sanremo 80’s» e dintorni. Infine, possiamo notare come i video musicali di Pino Daniele siano al primo posto per numero di suggerimenti in una varietà di cluster differenti: «Neomelodici» così come «Paolo Conte», «Dalla-De Gregori» e «Jazz 80’s» – a dimostrazione della trasversalità dei pubblici a cui è in grado di parlare l’artista. Viceversa, i video del cluster neomelodico non compaiono mai tra i suggerimenti ai video del chitarrista partenopeo:[14] un dato che testimonia il ruolo di specifiche comunità di ascoltatori nel determinare l’elenco dei video correlati su YouTube, e che mostra come non solo il campo semantico musicale sia relazionale (Middleton 1990, p. 7), ma come queste relazioni spesso non siano simmetriche.
Cluster A | Cluster B | Peso relativo legame A-B (rispetto ad A) | Peso assoluto legame A-B |
Anna Oxa-Elio e le Storie Tese | Sanremo 80’s | 54.32 | 1169 |
Paolo Conte | Pino Daniele | 42.35 | 335 |
Eduardo De Crescenzo | Sanremo 80’s | 42.15 | 110 |
I Nomadi | Guccini-Vecchioni-De André | 42.06 | 567 |
Patty Pravo-Modugno | Martini-Bertè-Mina | 41.57 | 449 |
Rettore-Carrà | Martini-Bertè-Mina | 40.82 | 436 |
Paola Turci-Piero Marras | Sanremo 80’s | 39.01 | 330 |
CCCP-CSI | Litfiba-Diaframma | 37.37 | 213 |
Pop 80’s | Sanremo 80’s | 37.05 | 1046 |
Baglioni-Venditti | Martini-Bertè-Mina | 34.92 | 418 |
Concato-Bertoli-Mannoia | Martini-Bertè-Mina | 32.71 | 280 |
Ruggeri-Queen-Camerini | Sanremo 80’s | 31.94 | 321 |
Mango-Matia Bazar | Martini-Bertè-Mina | 31.86 | 412 |
Gaber-Jannacci | Guccini-Vecchioni-De André | 30.42 | 216 |
Pooh | Sanremo 80’s | 29.91 | 859 |
Sanremo 80’s | Anna Oxa-Elio e le Storie Tese | 29.74 | 1169 |
Graziani-Rosso | Sanremo 80’s | 28.79 | 205 |
Franco Califano | Sanremo 80’s | 28.53 | 91 |
Masini-Bosè-Ferradini | Sanremo 80’s | 27.00 | 118 |
Celentano-Ricchi e Poveri | Sanremo 80’s | 26.52 | 253 |
Tabella 1: I primi 20 legami più forti tra cluster, pesati per il numero di video di «A» e in valore assoluto.
Conclusioni
In molti casi i risultati che abbiamo presentato, se estrapolati dal contesto teorico e metodologico, suonerebbero estremamente banali e di senso comune. Non serve condurre una ricerca empirica per poter affermare che, nell’immaginario musicale largamente condiviso, Gaber sia strettamente associato a Jannacci: è un qualcosa che «si sa», dovuto a fatti inequivocabili – i concerti e i dischi insieme, la storica appartenenza alla scena cantautorale e artistica milanese, la lunga amicizia tra i due, e via dicendo. Allo stesso modo, è palese come tra le fanfare degli Alpini e la musica leggera italiana degli anni Ottanta ci siano pochissimi punti di contatto, almeno «alle orecchie» di un ascoltatore qualunque. Tuttavia, a produrre silenziosamente le ovvie associazioni simboliche e le «normali» differenze percepite continua a esserci l’incessante processo – socialmente costruito, perpetuato e condiviso – di categorizzazione dell’esperienza umana (Bowker e Star 1999). Franco Fabbri propone di considerare gli «eventi musicali» come «punti in uno spazio multidimensionale» e i generi musicali come insiemi degli stessi (2008, p. 92). La multidimensionalità è dovuta ai diversi ambiti paralleli in cui si dispiega l’infinito intreccio di connessioni semantiche possibili che costituiscono il campo di una cultura musicale condivisa – ciò che, nel caso di concetti astratti, viene definito «intensione» (cfr. Marradi 2007, p. 48). Per esempio, confrontando la band neofascista italiana DDT coi contemporanei Punkreas – gruppo dichiaratamente antifascista – si notano diverse comunanze di genere, ma che non sono sufficienti a far verosimilmente finire i due gruppi nella medesima playlist, poiché a livello politico il confine simbolico (Lamont e Molnár 2002) appare insormontabile. Il quadro è complicato ulteriormente dalla fluttuazione del campo semantico nel tempo e tra i diversi pubblici di ascoltatori (cfr. Middleton 1990). Considerando dunque la complessità delle ragnatele di significati (Geertz 1973) che costituiscono una qualsiasi cultura musicale, le associazioni tra i 68.727 video musicali qui analizzati dovrebbero apparire meno prevedibili di quanto possano sembrare a prima vista. Esse, infatti, derivano dalle pratiche condivise di fruizione musicale di milioni di utenti YouTube, elaborate dal recommendation system della piattaforma. Pratiche che veicolano gusti e classificazioni condivise e che, interagendo con le affordances del medium, ci restituiscono un’istantanea mediata del campo semantico che le sottende. Il caso della musica italiana anni Ottanta su YouTube ci consente perciò di guardare aldilà delle relazioni algoritmiche tra un campione dei contenuti presenti sulla piattaforma. Anzi, proprio il fatto che talvolta queste associazioni appaiano «di senso comune», se letto insieme alla ricchezza sociologica di risultati meno prevedibili (vedi, ad esempio, i cluster «Sigle cartoni-883» o «Cristiana contemporanea-Liscio»), non fa che avallare la bontà della nostra interpretazione. I limiti più evidenti della metodologia adottata – l’inosservabilità dei soggetti autori delle pratiche, la difficoltà nello stimare la rappresentatività statistica del campione e l’incertezza sui dettagli dell’algoritmo di raccomandazione – sono controbilanciati dalle potenzialità del loro principale punto di forza, invocato e perseguito da un’ampia letteratura in sociologia culturale (cfr. Beer, 2013; Holt, 1997; Savage e Gayo, 2011): il carattere induttivo, scevro da etichettature aprioristiche, capace di cogliere in tempo reale il mutamento culturale. Questi risultati non sarebbero stati ottenibili attraverso un sondaggio o un’indagine etnografica.
In conclusione, non va dimenticato che, da un certo punto di vista, questa è una ricerca di archeologia musicale: dalle pieghe di YouTube sono riemersi concerti e brani di artisti ormai sconosciuti alle nuove generazioni, di svariati decenni più vecchi del formato mp3, dello streaming e delle frenetiche attività di marketing digitale delle etichette discografiche, eppure – anch’essi – digitalizzati. Come ricorda Roberts, se è vero che la tradizione musicale è percepita come qualcosa di «intangibile», è vero anche che le nuove tecnologie agevolano la sua progressiva conservazione e materializzazione (Roberts 2012, p. 271). Il lavoro invisibile e diffuso dei prosumer che hanno contribuito alla costruzione di questo immenso «archivio digitale» (cfr. Beer e Burrows, 2013) è un affascinante prospettiva di ricerca per i popular music studies. Un ulteriore campo di studio altrettanto e forse ancor più saliente è rappresentato dal crescente potere degli algoritmi online nella definizione delle culture digitalizzate contemporanee (cfr. Striphas 2015) – un tema inevitabilmente intrecciato con la dimensione privata dei social media che li utilizzano commercialmente. Perché, seppur questo studio si basi su un campione di dati scaricati liberamente da YouTube, la formulazione completa dell’algoritmo di raccomandazione e l’intero ammasso di informazioni che transitano sulla piattaforma sono disponibili soltanto a chi in YouTube ci lavora per incrementarne i profitti. Non a chi – istituzioni accademiche, comuni cittadini e, naturalmente, noi autori – sarebbe interessato a sfruttare quei dati per incrementare ulteriormente la conoscenza sui fenomeni culturali che veicolano e che qui abbiamo provato esplorativamente a indagare.
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Note
[1] Le quali, al momento della nostra raccolta dati, non potevano ancora essere automatizzate. Vedi <https://support.google.com/youtube/answer/6172631?hl=it> (ultimo accesso 15/07/2015).
[2] Cfr. <http://www.audiweb.it/news/total-digital-audience-del-mese-di-aprile-2015/> (ultimo accesso 15/07/2015).
[3] <http://www.internetlivestats.com/internet-users/#trend> (ultimo accesso 15/07/2015).
[4] <http://www.audiweb.it/news/total-digital-audience-del-mese-di-aprile-2015/> (ultimo accesso 15/07/2015).
[5] <http://www.fimi.it/dati-mercato/streaming-traina-il-mercato-discografico-italiano-che-cresce-del-4-nel-2014> (ultimo accesso 15/07/2015).
[6] <https://www.youtube.com/yt/press/it/statistics.html> (ultimo accesso 15/07/2015).
[7] La search history individuale influenza i video correlati solo in caso di un computer già utilizzato con un account YouTube. I dati qui analizzati sono stati raccolti con un computer “vergine” attraverso le API della piattaforma.
[8] Application Programming Interface, ossia uno strumento rilasciato, ad esempio, da una piattaforma web, che permette di accedere a dati strutturati relativi alle attività della piattaforma stessa.
[9] Gephi è un software open source dedicato alla visualizzazione ed esplorazione di reti di ingenti dimensioni (www.gephi.org).
[10] Escluse le “parole vuote” o “stop-words” (vedi Tipaldo, 2014).
[11] <http://skynetandebert.com/2015/04/22/music-was-better-back-then-when-do-we-stop-keeping-up-with-popular-music/> (ultimo accesso 15/07/2015).
[12] <http://www.spazialex.it/old/portalexdj/djstorici/djstoricijafro.htm> (ultimo accesso 15/07/2015).
[13] Il calcolo è basato sul valore pesato del numero dei legami che coinvolgono un nodo della rete (weighted degree).
[14] Perlomeno per quanto riguarda il nostro campione, il quale non è rappresentativo dei contenuti musicali presenti sull’intera piattaforma e si limita a fotografare una porzione della rete di video correlati in un momento specifico.