Strategie di “ibridazione mediterranea” nel rap/raggamuffin napoletano sull’esempio degli Almamegretta

 Gerhild Fuchs

gerhild.fuchs@uibk.ac.at

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Abstract

L’articolo si focalizza su una produzione musicale – quella del rap, hip hop e raggamuffin nell’Italia meridionale e in particolare nell’area napoletana – il cui fiorire risale al periodo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. In particolare, analizzando la produzione e la storia degli Almamegretta, si intende evidenziare come l’assidua ricerca identitaria diventi statement politico implicito, una ricerca che parte dalla propria discendenza meridionale o, più specificamente, napoletana, e da lì si apre verso altre fonti d’influenza. L’analisi intende dimostrare come queste influenze vadano al di là di ciò che secondo Iain Chambers caratterizza in generale l’ambito della world music, ossia il fatto di attuare una dislocazione di centro e periferia; al contrario, nei testi e nelle musiche degli Almamegretta, si giunge a una vera e propria situazione di “ibridismo culturale” o di “in-between”.

Il rap e raggamuffin meridionale tra fusione e contaminazione

L’argomento di questo contributo si iscrive nel contesto, fortemente caratterizzato dall’uso del dialetto, della musica rap, hip hop e raggamuffin nell’Italia meridionale e in particolare nell’area napoletana. In termini generali, la nascita del movimento rap e hip hop, com’è noto, risale al periodo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta in cui è stato strettamente legato, nelle grandi città italiane (Roma, Bologna, Milano e, per l’appunto, Napoli), all’attività di determinati centri sociali (Pacoda 2000). A Napoli, quello più importante era (ed è) senz’altro il «centro sociale occupato autogestito»[1] Officina 99, nel cui ambito la maggior parte dei gruppi rap (come i 99 Posse che dal centro prendono il nome, gli Almamegretta, i Bisca, i 24 Grana) o rapper singoli (come Speaker Cenzou) hanno iniziato la propria carriera. In questa prima generazione di «rapper», il legame con i centri sociali va di pari passo con una decisa presa di posizione politica che Massimo Depaoli ha circoscritto con i termini seguenti: «il rifiuto delle ideologie consolidate, il senso di marginalità rispetto a un sistema che essi rifiutano, uno spiccato antagonismo sociale e una scelta pacifista, antiproibizionista e libertaria con forti venature anarchiche» (Depaoli 1998, p. 140).

Per gli Almamegretta su cui saranno focalizzate le seguenti esposizioni, tale background politico non ha però mai avuto la stessa rilevanza che per esponenti come i 99 Posse o Speaker Cenzou con la loro «decisa scelta di campo, intransigente e senza compromessi» (Pacoda 2000, p. 36). Ciò che conta di più nel loro caso (e che contava in ogni fase della storia abbastanza movimentata di questa formazione), è un’assidua ricerca identitaria che diventa statement politico implicito, una ricerca che parte dalla propria discendenza meridionale o più specificamente napoletana, e da lì si apre verso fonti d’influenza varie. Tra queste fonti è molto evidente la sfera musicale globale (o world music) a cui il gruppo attinge tramite il ricorso al dub o al raggamuffin; ma oltre a ciò esiste anche – ed è quanto interessa maggiormente in questa sede – un forte richiamo ad una cultura mediterranea che parte dalla propria tradizione musicale per diramarsi verso terre più lontane come quelle africane e del Medio Oriente.

Naturalmente tale approccio alla musica non è caratteristico solo per gli Almamegretta. Ci sono altri rappresentanti della popular music meridionale che condividono chiaramente tale tendenza, tra i quali il grande cantautore napoletano recentemente deceduto Pino Daniele, che sarà brevemente trattato in seguito; i già nominati 99 Posse con determinate loro canzoni particolarmente ricche di reminiscenze alla propria tradizione popolare e ad altre culture mediterranee (come «Napolì»); o ancora, spostandosi nell’area del Salento, i Sud Sound System con i loro esperimenti sincretistici molto efficaci. È interessante considerare gli attributi e le caratterizzazioni a cui ricorre Goffredo Plastino nel suo saggio su Rap, raggamuffin e tradizione in Italia per distinguere i Sud Sound System dagli Almamegretta: mentre sottolinea rispetto ai primi, oltre all’uso del dialetto, lo stabilirsi di un chiaro «legame tra raggamuffin e tarantismo» (Plastino 1996, p. 41) per cui definisce lo stile musicale del gruppo (ricorrendo a Colazzo 1994) con il termine di «etnorap», quella stessa etichetta non sembra bastargli per gli Almamegretta la cui caratteristica più saliente si riassume, per lui, nel concetto di «contaminazione musicale» (come è anche intitolato il capitolo a loro dedicato). Questo significa che la base musicale del rap o raggamuffin non solo si mescola con elementi del folklore musicale campano o meridionale, ma si apre verso influssi ben più svariati e con ciò verso «dinamiche musicali di ibridazione, sovrapposizione, contaminazione» (Plastino 1996, pp. 81-82).

Si impone quindi l’ipotesi che gli Almamegretta si inoltrino ben più lontano in questa direzione «rizomatica» rispetto ad altre formazioni meridionali della popular music. Come si vorrebbe dimostrare in seguito, l’effetto delle loro musiche e dei loro testi va oltre quello che secondo Iain Chambers caratterizza la world music in generale, cioè il fatto di attuare una dislocazione di centro e periferia; invece si arriva, con tali musiche e tali testi, in una vera e propria situazione di «ibridismo culturale» o di «in-between», per ricorrere a termini degli studi postcoloniali. Secondo Chambers, effettivamente, le esperienze musicali abbracciate dal termine world music «possono essere viste […] come rappresentative di uno spostamento culturale e storico che mette in discussione la natura stessa della distinzione tra centro e periferia», mentre tendenze musicali come il rock sono sottoposte a manovre commerciali dirette dal centro (Chambers 2003, p. 92).[2] Da questo punto di vista, la world music si contrappone di per sé al concetto di identità «chiusa» e «centripeta» cui aderiscono le culture nazionali, e può invece essere considerata come espressione (quantunque non sempre ragionata) di quel decentramento, quella frammentazione e dislocazione che contrassegnano, secondo Stuart Hall (1999, pp. 393 e 434), le identità moderne. Rispetto a ciò, si fa un passo ancora più in avanti quando si abbandona consciamente ogni condizione univoca per entrare in quel «terzo spazio» dell’«in-between», quando cioè si sceglie, come lo esprime Chambers, «di muoversi […] tra le scene, i suoni e le lingue dell’ibridismo, dove non c’è né la stabilità dell’“autentico” né il falso» (Chambers 2003, p. 97). Nel caso degli Almamegretta, come si cercherà di dimostrare, il messaggio che sorge in molte delle loro canzoni dalla sintesi di parole e musica, può essere interpretato proprio in tal senso.

Pino Daniele come modello di riferimento

Ma evidentemente quelle caratteristiche delle loro canzoni non derivano dal nulla, esistono invece modelli di riferimento e predecessori, soprattutto a livello regionale della stessa area napoletana. Possiamo lasciar da parte per ora gli esempi, numerosi e senz’altro interessanti, di una fusione tra tendenze globali della popular music quali jazz, rock, pop e appunto world music con elementi della canzone popolare, presente in gruppi e cantautori/cantautrici quali la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Eugenio Bennato, Tullio De Piscopo o Teresa De Sio. Volendo invece focalizzare l’attenzione sui procedimenti appena accennati di una più estesa «contaminazione musicale», si impone soprattutto il nome di Pino Daniele come modello di riferimento più importante quando si parla della fusione di musiche napoletane con quelle di altri paesi o altre etnie.

La produzione musicale di Daniele ha assorbito, nel corso degli anni e decenni, una vasta gamma di influssi internazionali tra cui il blues nero d’America o i ritmi cubani e sudamericani. Ma senza dubbio la sfera culturale, o meglio, transculturale[3] a cui la sua musica attinge nel modo più continuo è, insieme alla stessa tradizione napoletana, quella del Mediterraneo in senso ampio. Discendendo egli stesso da antenati greci, Daniele dichiara in un’intervista di sentirsi parte di una cultura della quotidianità molto attaccata «ai santi della casa, alle tradizioni, alla famiglia, al mangiare, al clima, alla terra, al mare… cose queste sentite molto anche dagli arabi, dai popoli africani, insomma, da tutti quelli che s’affacciavano sul Mediterraneo» (Marengo e Pergolani 1998, p. 174). Nella stessa intervista, il cantautore partenopeo sottolinea come Napoli stessa sia, già da sempre, un crogiolo di etnie e culture varie: «I napoletani sono un popolo scaturito dalla fusione tra i sanniti delle montagne e i greci venuti dal mare. Poi sono arrivati i bizantini, gli africani, gli arabi, gli spagnoli ma anche gente del nord come gli svevi» (ibid.). Ciò che conta in questa affermazione non è, certo, l’esattezza storica, bensì la coscienza che vi si esprime di un’identità regionale già da sempre «frammentata» e «decentrata». Uno dei meriti di Pino Daniele sta nell’aver incluso nella sua produzione di cantautore la tradizione musicale popolare propria di quella Napoli composta da culture varie in continuo contatto. Fino ad un certo punto, comunque, tale transculturalità caratterizza già fin da sempre la musica popolare del Sud d’Italia, dato che essa si distingue da quella del resto d’Italia – com’è stato rilevato fin dagli anni Settanta da Roberto Leydi – per delle caratteristiche condivise dalle musiche popolari dell’intera area mediterranea,[4] «dal Golfo Persico a Gibilterra, toccando l’Africa settentrionale e buona parte dell’Europa mediterranea» (Leydi 1973, p. 15). La presenza di tali influssi si manifesta chiaramente nella produzione musicale di Pino Daniele, basti pensare a due album addirittura programmatici come Non calpestare i fiori nel deserto (del 1995) dove il cantautore si mette sulle tracce musicali del continente africano, o Via Medina (del 2001) che celebra le culture arabe e greco-bizantine.[5]

La «discendenza africana» del Meridione negli Almamegretta

Sono questi stessi influssi musicali che trovano espressione anche in molti brani degli Almamegretta. Per le seguenti osservazioni su alcuni di questi brani ci limiteremo grossomodo alla produzione musicale degli anni Novanta, in sintonia con la delimitazione cronologica proposta dal presente volume. Più precisamente, verranno esaminati gli album usciti tra il 1992, anno dei Figli di Annibale, e il 2003, l’anno in cui Gennaro Della Volpe alias Raiz (o Raiss),[6] cantante del gruppo e autore della maggior parte dei testi, inizia una carriera solista. In quel periodo il gruppo si compone di quattro membri che sono, oltre a Raiz, Gennaro «T» Tesoni alla batteria, Paolo «Pablo» Polcari alle tastiere e Stefano «D.Rad» Facchielli, responsabile per campioni ed effetti. Bisogna comunque sottolineare che questa delimitazione temporale non segue delle ragioni qualitative; sorprendentemente il gruppo ha continuato a produrre brani originali e interessantissimi anche dopo l’uscita di Raiz nel 2003, dopo la morte di D.Rad in un incidente stradale nel 2004, e finanche dopo la riunificazione con Raiz avvenuta nel 2012.

Per ora si risalirà all’esordio del gruppo e al loro primo grande successo il cui titolo segnala già tutto un programma: «Figli di Annibale», compresa nell’omonimo EP del 1992. Con questo brano, gli Almamegretta introducono a livello musicale i lenti e ipnotici ritmi dub cui rimarranno fedeli lungo tutta la loro carriera. Dal punto di vista del testo, però, si tratta di un brano atipico perché non composto in dialetto napoletano, bensì in italiano standard. È lecito supporre che si tratti di una scelta deliberata, dato che le parole della canzone possono essere concepite come messaggio provocatorio rivolto «a tutta la nazione». Com’è ben noto, non solo vi si suggerisce che Annibale, denominato «grande generale nero», sia da ritenere rappresentante di una civiltà superiore perché in grado di attraversare le Alpi «con novantamila uomini africani» e «con un mare di elefanti», in tempi in cui «gli europei non riuscivano a passarle neanche a piedi»; per di più, questi «uomini africani» dell’armata di Annibale, trattenutisi per «venti anni di dominio militare» nel Sud dell’Italia, vengono raffigurati addirittura come gli antenati degli italiani meridionali nelle cui vene corre perciò «un po’ di sangue di Annibale» ossia «sangue mediterraneo», parole con cui la canzone si chiude.

L’ironia di questa genealogia revisionistica è resa evidente dalla stessa interpretazione musicale e vocale del brano, in particolare dal breve riso che segue il penultimo verso «noi siamo figli di Annibale meridionali» nonché dai borbottii canticchiati nel lungo epilogo strumentale, concluso tra l’altro da suoni che ricordano dei tamburi africani. Non è tuttavia un’ironia sufficientemente forte da scardinare l’intero messaggio, come sarebbe nel caso di una parodia. «Figli di Annibale» decisamente non è semplicemente parodico, lo prova il fatto che la congettura della discendenza africana e della superiorità civilizzatrice dell’Africa ritorna nella produzione successiva trovando la sua espressione più esplicita nella canzone-rap «Black Athena» dell’album Lingo (1998). Si tratta di un brano bilingue, composto da passaggi inglesi interpretati dal rapper americano, adottivo italiano, Dre Love e da passaggi in napoletano interpretati da Raiz. Il titolo del brano si ispira in modo del tutto evidente ad un libro dello storico inglese Martin Bernal, intitolato per l’appunto Black Athena. In questa pubblicazione in tre volumi, la cui prima parte uscì nel 1987, Bernal ipotizza che la cultura greca classica abbia subito influssi determinanti da quella fenicia e ancora più da quella dell’antico Egitto, per cui la civiltà classica, presunto fondamento della nostra civiltà “occidentale”, avrebbe delle radici afroasiatiche. È probabilmente a tale libro che si allude quando Dre Love nel brano degli Almamegretta canta: «Pick that dusty book up off the shelf and read the truth read the truth / science was created in Timbuctu / center of the world is Africa / the rhythm of the drum comes from Africa». Questo revisionismo storico giunge ad una vera provocazione nei brani cantati da Raiz, proprio per via dell’uso del dialetto napoletano. Si tratta di un dialetto molto stretto, pronunciato e cadenzato in modo da evocare (così sembra) il timbro e le sonorità di una lingua tribale africana. Effettivamente l’io lirico dei passaggi dialettali si spaccia per «l’uomo nero che viene da dentro la giungla» e allo stesso tempo per «figlio di Lumumba», figlio cioè di un’icona della lotta per l’indipendenza africana (più precisamente, congolese) di cui assume le attitudini ribelli ed emancipatrici quando ricorda agli ascoltatori che essi hanno «gli stessi nonni» di lui e che devono cercare «a casa sua» – cioè in Africa – gli albóri della propria storia.

È chiaro che l’immagine dell’«uomo nero» come viene evocata in questa canzone – e anche in «Figli di Annibale» nella veste del «grande generale nero» – appare fortemente stereotipata. In effetti, esso fa venire in mente certi cliché già esistenti a livello delle finzioni cinematografiche, letterarie o musicali, come quelli del «Black Magic Man», luogo comune nella popular music fin dagli anni Settanta, o del «Magical Negro», personaggio cinematografico dal particolare dono di intuizione o addirittura dal potere mistico cui è spesso assegnato il ruolo di venire in aiuto del protagonista «bianco» (cfr. Glenn e Cunningham 2009). Diversamente da quest’ultima accezione, comunque, l’«uomo nero» degli Almamegretta si distingue proprio per la sua autonomia e addirittura superiorità nei confronti del «bianco». La stereotipia della sua caratterizzazione appare come strumento di provocazione intenzionalmente ricercato e corrisponde in ciò ad un procedimento tipico della cultura musicale del rap e del reggae: per “piazzar bene” il messaggio è lecito caricare le tinte.

Ad ogni modo, le finezze di questo brano non si situano nel messaggio espresso dalle parole, bensì nell’artificio di conferire alle parti cantate in dialetto napoletano le sembianze di un canto tribale africano, gutturale e violento, in modo da stabilire un’analogia implicita tra l’appartenenza napoletana e africana. È istruttivo insistere su questo uso mimetico del dialetto, un procedimento originale adoperato spesso dagli Almamegretta e in particolare da Raiz. Un altro esempio di un brano dove il napoletano assume delle cadenze «africane» è «Fattallà» del primo album Anima Migrante (1993). In questo caso l’io lirico si mette nei panni di chi vuol cacciare da «casa sua» uno dei tanti immigrati africani, enumerando tutta una serie di argomenti per tale rifiuto. All’interno della canzone questo atteggiamento viene esplicitamente respinto tramite una strofa in cui si polemizza contro il «serraglio monoculturale» ambito dal sistema e si evoca una società frammischiata che non dica «fattallà» più a nessuno. Ma anche senza questa strofa «rettificante», si capisce in modo intuitivo il senso conferito alla canzone, proprio perché l’uso del dialetto rimanda contemporaneamente, per così dire, alla «napoletanità» e all’«africanità» di chi parla, smascherando gli attacchi rivolti versi gli immigrati africani praticamente come “auto-attacchi” e quindi come assurdi. Tale messaggio viene sostenuto in maniera ovvia anche dalla struttura musicale, dato che il rap violento e aggressivo del personaggio xenofobo è incorniciato da un reggae che emana a sua volta un messaggio di pace, fraternità e internazionalità.

La congiunzione con l’area mediterranea o mediorientale

È proprio questa compresenza così insistente del “proprio” e dell’”altro” a conferire la loro originalità alle canzoni degli Almamegretta. Sulla stessa scia anche Alessandro Pestalozza, il “biografo” del gruppo, sostiene che le loro canzoni sono «anomale nel panorama italiano per il profondo radicamento alla terra d’origine e per il loro essere intrise di suoni altri» (Pestalozza 1996, p. 8). Per l’evocazione di questa «alterità», in molte canzoni del gruppo è cruciale anche il rimando alla cultura mediterranea orientale e araba, ed è quanto si vuole dimostrare in questo ultimo paragrafo del saggio. Il brano più adatto a servire come esempio è «Suddd»,  da Anima Migrante (1993), proprio perché esso già dal titolo si presenta come vero e proprio inno al Meridione e solleva la domanda di quale «Suddd» si tratti. A livello del testo, nei primi otto versi (a cominciare con «Sud ind’a stu core staje / sì comm’e ’o sanghe ind’e vvene meje») questo brano esalta l’identificazione non solo affettiva, ma corporea e sensuale con un Sud che si presenta come emblema di un mondo diverso, quasi mistico («simmo ’e Napule simmo ’e n’atu munno / addò fernesce ’o bene e s’ accumencia a scavà ’o funno»). Con i versi seguenti, tale Sud diventa però riconoscibile come terra ben definita, il Meridione d’Italia di cui si elencano varie ingiustizie e calamità succedutesi lungo la sua storia:

scavalo cchiù bbuono scavalo cchiù mmeglio

e po’ ccapisci pecchè stammo mmiezo ‘e ‘mbruoglie

nord e sud a llevante e a punente

chi ce cumanna è sempe stato malamente

Francischiello Vittorio Garibbaldi

avota e ggira anno ’n guaiato a tutte quanti

s’anno spartute terra uommene e denare

rre possidenti bbarune e industriali

[…]

Te voglio fa sape’ chi ha costruito stu paese

te voglio fa sape’ chi n’ha pavato ’e spese

chi è stato deportato pe’ quatto sorde ’o mese?

guaglione siciliani e ccalabbresi

famme miseria schifezze e malatia

chist’è stato ’o prezzo che ha pavato a terra mia

p’avè chestu ppoco ’e lusso e civiltà

machine palazze eroina a quantità

mafia ndrangheta sacra corona unita

 chest’è tutto chello che c’hanno lassato

ddoje facce teneno però nun so’ nemici

’o deputato e ’o camorrista ind’o vico.

Questo discorso sul Sud con le veementi critiche rivolte alle autorità politiche e ai loro intrecci con la mafia deriva chiaramente «dal basso», nel senso che riproduce il punto di vista del popolo che non è esente da semplificazioni e generalizzazioni, attribuendo ai vari «potenti» avidi e corrotti l’intera responsabilità dei problemi del Meridione – il quale nondimeno, in un modo quasi atavistico, rappresenta l’indiscussa terra di appartenenza. Se malgrado tutto questo, il brano «Suddd» non degenera nel populismo politico o in una retorica di «sangue e suolo», ciò è dovuto di nuovo alla sua composizione musicale, dato che essa libera dei significati supplementari che relativizzano e modificano quelli trasportati dal testo. Così gli elementi di rap e reggae che accompagnano le strofe hanno l’effetto di aprire il piccolo territorio – Napoli, la Campania ossia il Meridione d’Italia – verso il mondo intero, ma con una focalizzazione sui poveri e svantaggiati che risulta dal messaggio del testo. Tale invito implicito a una solidarietà mondiale assume un’ulteriore sfaccettatura di senso nel ritornello, le cui parole («Sudd! m’abbrucia a capa m’abbrucia a capa m’abbrucia ’o fronte / co’ chello che aggio visto mme m’abbrucia ’o fronte») sono interpretate da Raiz nello stile di un canto di muezzin, con una strumentazione dalle sonorità mediorientali enfatizzate dall’uso (sia pure elettronico) del mizmar, strumento caratteristico della tradizione musicale araba che nel Meridione italiano ha il suo pendant nella zampogna. Tale ritornello «arabizzante» riconduce la canzone musicalmente in un’area di nuovo più delimitata, quella pur molto ampia del Mediterraneo, di cui si enfatizza la parte orientale delle culture turche, arabe e islamiche. Effettivamente si realizza, tramite il ritornello, una strettissima fusione non solo tra le culture del Meridione italiano e del mondo mediorientale (culture di per sé già da sempre contaminate e «impure»), ma anche una pretesa fusione a livello religioso. Ammesso che nelle parole del ritornello («m’abbrucia a capa m’abbrucia ’o fronte / co’ chello che aggio visto mme m’abbrucia ’o fronte») si possa individuare, come a noi sembra, un’allusione alla corona di spine e quindi alla figura di Gesù redentore, la loro interpretazione musicale «islameggiante» diventa ancora più significativa, costituendo quasi un invito implicito alla congiunzione e fraternizzazione delle religioni.

Anche in altre canzoni del gruppo è possibile scorgere degli accenni a una presunta fusione religiosa dello stesso tipo, p.es. in «Pe’ dint’ ’e viche addo’ nun trase ’o mare» dove il contesto cristiano viene suggerito a livello del testo con i concetti del «diluvio universale» o del suono delle campane, mentre quello islamico è implicato di nuovo dalle sonorità musicali (uso del mizmar e modo di cantare). Fuori da questi rimandi religiosi – che rappresentano senz’altro una particolarità limitata a poche canzoni – le sonorità «arabizzanti» sono presenti in una grandissima parte della produzione musicale degli Almamegretta, spesso già per il semplice modo di cantare di Raiz. Infatti, quest’ultimo espliciterà tali tendenze in un’intervista del 2010 parlando di un progetto musicale con il gruppo barese Radicanto intitolato «musica immaginaria del Mediterraneo», progetto che «cerca di mettere in risalto tutte le cose in cui le differenti culture musicali del mediterraneo si assomigliano». Come precisa Raiz in tale contesto, «Napoli è il centro esatto del mediterraneo […], ha preso un po’ da tutti e forzando un po’ le cose la faccio stare al centro di tutto e mi diverto a cantare come un cantante mediorientale in napoletano» (Cencetti 2010). Si tratta di una strada musicale imboccata da Raiz sin dagli inizi, lo dimostrano gli esempi già portati e altri brani dalle sonorità chiaramente mediorientali come «Anima migrante», «Imaginaria», «Catene» (le ultime due dell’album Imaginaria) o anche «Fatmah» (dell’album Lingo) che, oltre a rivendicare musicalmente la tradizione orientale, contiene addirittura una dichiarazione d’amore testuale, rivolta, sì, ad una ragazza araba di nome Fatmah, ma metaforicamente estesa all’intera tradizione musicale legata a tale mondo:

 Ah che bella voce ca ll’anima se squaglia quanno cante […]

’a vita mia sta dint’’e mmane toje

’o core tuojo dint’’e ccanzone meje,

cchiù passa ’o tiempo e cchiù ’o ssaccio ca

i’ senza ’e te nun putesse campa’.

Conclusioni

Si è voluto dimostrare con quanto precede fino a che punto la produzione musicale degli Almamegretta si svolge nel segno di una “contaminazione” concepita come intreccio della propria tradizione musicale campana o meridionale con l’apertura verso un altrove, o per dirlo con Iain Chambers verso «una dispersione che ci porta oltre quella casa tradizionale composta di linguaggio e identità nazionale, di località fissa», seguendo con ciò «la sfida a concepire il nostro essere senza la garanzia di essere radicati in sangue e suolo, senza l’idea che il “nostro” linguaggio, la “nostra” cultura, la “nostra” storia, appartengano solamente a noi» (Chambers 2003, p. 115). I membri stessi del gruppo confermano questa chiara intenzione sostenendo in un’intervista del 1995, cioè più o meno ancora agli inizi della loro carriera: «[…] a noi il discorso della purezza non interessa, ci interessa il discorso della contaminazione» (Plastino 1996, p. 85). Da un’altra intervista del 1996, risulta che il mezzo più adatto per produrre tali musiche «contaminate», è costituito agli occhi del gruppo prevalentemente dal dub:

«Il dub per noi significa accesso, un biglietto per salire su una nave che ti fa fare il giro del mondo. La possibilità di uscire da una gabbia etnica e culturale, il tentativo di essere liberi in tutti i sensi: di suonare musica indiana senza essere indiani, nera senza essere neri, napoletana senza essere napoletani […]» (Ivi, p. 83).

Sembra evidente che queste dichiarazioni possono essere intese nel senso dell’«ibridismo culturale» cui si è accennato. È vero che tale concetto viene applicato nei postcolonial studies in primo luogo ai contesti della migrazione, cioè alle condizioni di chi ha lasciato il proprio paese e può trovare una nuova identità vivendo con – e nelle – differenze, diventando quello che i teorici postcoloniali chiamano un «soggetto ibrido». Gli artisti di cui il gruppo degli Almamegretta si compone certo non si trovano, nel senso proprio della parola, in una condizione di migranti; ma non dimentichiamo che essi si appellano a uno stato migratorio già con il nome stesso del gruppo, traducibile con lo stesso motto programmatico che è servito come titolo al loro primo album, cioè «anima migrante». Si tratterebbe allora dell’appello ad un’identità di migrante costituitasi indipendentemente da un’effettiva situazione migratoria. O, forse, possiamo perfino congetturare che a potersi sentire parte di una situazione e di un’identità tali, è chi vive in quel Mezzogiorno così spesso considerato estraneo alla mentalità economica e culturale del cosiddetto «Occidente». E, ancora più, immerso in questa condizione è chi vive in una metropoli transculturale come Napoli, città che rappresenta – secondo le parole di Alessandro Pestalozza – un «caotico contenitore dove da sempre si mischiano i ritmi, i suoni, le tensioni, le pulsioni, le problematiche di tutti i Sud del mondo» (Pestalozza 1996, p. 9).

Bibliografia

Bernal, Martin. 1987. Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization. Rutgers University Press, New Brunswick.

Cencetti, Francesca. 2010. «A tu per tu con Raiz: “Io e la musica mediterranea”», in RomaToday, <http://www.romatoday.it/cultura/intervista-raiz.html> (ultimo accesso 15 febbraio 2010).

Chambers, Iain. 2003. Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale. Roma, Meltemi.

Chambers, Iain. 1993. «“World music”, ovvero la musica di un mondo in frantumi: di chi è il centro, di chi la periferia?», in Gabriella Paci e Marialuisa Stazio (a cura di), Non più e non ancora. Verso nuove realtà della comunicazione. Cuen, Napoli.

Colazzo, Salvatore. 1994. «Rap e tarantelle», in Georges Lapassade, Intervista sul tarantismo. Maglie, Madona Oriente, pp. 163-173.

Depaoli, Massimo. 1998. Rap. Garzanti Scuola, Milano.

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Hall, Stuart. 1999. «Kulturelle Identität und Globalisierung», in Karl H. Hörning e Rainer Winter (a cura di), Widerspenstige Kulturen. Cultural Studies als Herausforderung, Suhrkamp, Francoforte, pp. 393-441.

Leydi, Roberto. 1973. I canti popolari italiani. Mondadori, Milano.

Marengo, Renato e Pergolani, Michael. 1998. Song ’e Napule. RAI, Roma.

Pacoda, Pierfrancesco. 2000. Hip hop italiano. Suoni, parole e scenari del Posse Power. Einaudi, Torino.

Pestalozza, Alessandro. 1996. Almamegretta. Arcana, Padova.

Plastino, Goffredo. 1996. Mappa delle voci. Rap, Raggamuffin e tradizione in Italia. Meltemi, Roma.

Welsch, Wolfgang. 1999. «Transculturality – the Puzzling Form of Cultures Today», in Mike Featherstone e Scott Lash (a cura di), Spaces of Culture: City, Nation, World. London, Sage, pp. 194-213 (si veda anche <http://www2.uni-jena.de/welsch/papers/W_Wlelsch_Transculturality.html>)

Discografia

Almamegretta . 1992. Figli di Annibale. Anagrumba 74321-1 3871-2, cd EP

Almamegretta. 1993. Animamigrante. Anagrumba 74321-18092-2, cd.

Almamegretta. 1995. Sanacore. Anagrumba 74321-28765-2, cd.

Almamegretta. 1998. Lingo. BMG Ricordi 74321-54825-2, cd.

Almamegretta. 2001. Imaginaria. BMG Ricordi 74321-86227-2, cd.

Note

[1]          <http://www.officina99.org/> (ultima visita 17/6/2018).

[2]          Oltre al saggio su Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale (Roma 2003) da cui si cita, si veda anche, sul particolare argomento della world music, Chambers 1993.

[3]          Si impiega il concetto di «transculturale» e «transculturalità» nel significato definito da Wolfgang Welsch (1999), cioè nel senso della pluralità interna e dell’assenza di confini stabili, di compattezza ed unità che caratterizzano le culture moderne.

[4]          Secondo Leydi (1973, pp. 15-16), si tratta delle caratteristiche seguenti:

  1. impianto spiccatamente melodico;
  2. base modale di tipo orientale (e soluzioni tonali moderne con larga prevalenza del minore);
  3. forte tendenza allo sviluppo melismatico;
  4. larga prevalenza dell’esecuzione solistica;
  5. emissione a gola chiusa e voce forte, alta, “lacerata”;
  6. strutture ritmiche generalmente libere;
  7. limitata dipendenza da forme strettamente strofiche;
  8. predominio di testi di carattere “lirico”;
  9. predominio del metro endecasillabo, in varie combinazioni strutturali, con rime e assonanze parossitone.

[5]          Rispetto agli intrecci intenzionali con le culture mediorientali potrebbe anche venire in mente, pensando all’area musicale napoletana, Renato Carosone con brani come «’O sarracino». È però ovvio che l’approccio parodico di Carosone parte da un concetto distante dalla transculturalità, rivolto piuttosto all’esistenza di confini e confronti tra le culture.

[6]          Nome borghese: Gennaro Della Volpe; si fa chiamare anche «Reeno» (cioè Rino, da Gennarino). Secondo le sue proprie indicazioni, «Raiss» non deriva (come si legge p. es. su Wikipedia) da «radici», ma da una parola araba che significa «comandante, presidente», parola che nel dialetto siciliano diventa «u’ rraisi» e indica il capo di una spedizione di pesca. Cfr. Pestalozza (1996, p. 19).