Il fenomeno Fivelandia: Appendice Intervista a Enzo Draghi (Voghera, 11 novembre 2014)

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Come è nato il progetto Fivelandia?

Il progetto nasce all’interno del programma dedicato alla fascia ragazzi di Mediaset, di cui Alessandra Valeri Manera era la responsabile. Avendo sempre desiderato essere autrice di canzoni, ha trovato nelle sigle dei cartoni animati un’opportunità: il Maestro Giordano Martelli le insegnò alcuni rudimenti – non della musica – ma della scrittura dei testi. Io l’ho conosciuta nel 1985, quando aveva trent’anni. Alessandra Valeri Manera era figlia di Manera, amico di Bernasconi, che era stato presidente della Confindustria degli anni Settanta.

Era lei che scriveva i testi anche dei conduttori delle trasmissioni Bim Bum Bam e Ciao Ciao?

No. C’erano autori apposta, ma Alessandra Valeri Manera supervisionava tutto, anche i testi scritti per i presentatori (Bonolis, Uan, eccetera) ed effettuava la prima censura nei testi dei cartoni animati. Era lei che diceva dove tagliare i cartoni, soprattutto quelli giapponesi che erano rivolti a un pubblico più adulto.

Chi è che sceglieva le canzoni da inserire nelle compilation Fivelandia e Cristina e i tuoi amici in tv?

Era una scelta di Alessandra Valeri Manera. Sicuramente ci saranno state le hit del momento e poi altre non necessariamente legate alla fama dei cartoni del momento. Per esempio, la sigla di Lupin è comparsa solo nelle collezioni più recenti.

Si ricorda l’organizzazione?

Presidente, Carlo Bernasconi e Alessandra Valeri Manera, che non demandava ad altri…

Perché hanno chiuso le fasce ragazzi?

Il settore dell’industria dei giocattoli era andato in crisi. Il mondo del merchandising era il primo sponsor: erano le pubblicità inserite all’interno del contenitore “fascia dei ragazzi” che tenevano economicamente in piedi il progetto.

Perché in quegli anni la maggior parte dei cartoni animati erano giapponesi?

Per questioni economiche: erano a un prezzo favorevole di acquisto. Alessandra Valeri Manera in persona andava due volte all’anno in Giappone a scegliere i cartoni. I traduttori erano italiani scelti nel suo staff.

Che lei sappia il fenomeno è stato ripetuto in altri Paesi?

È stato esportato a TeleCinco in Spagna e ha funzionato molto bene. Si è provato a riproporre l’esperienza anche a La Cinq in Francia, ma non con lo stesso successo. La gestione era la stessa. Nel 2012 sono nati anche dei Festival dei Cartoni e dei Fumetti. Per esempio, a Barcellona ho visto un Festival in cui cantava la stessa cantante con la quale collaboravo io quando mi mandavano in Spagna per le sigle. Le sigle in quei Paesi erano le nostre, ma loro non avevano il personaggio Cristina D’Avena che avevamo noi. La cantante era sì la stessa, ma non si è mai trasformata nella “Signora dei Cartoni”.

Qual era il processo compositivo delle sigle?

Veniva prima la musica e poi il testo. Essendo che Alessandra Valeri Manera non era una musicista ci chiedeva un aiuto: noi le fornivamo con la musica composta una metrica (con parole campate in aria) sulla quale lei faceva il testo seguendo lo storyboard dei cartoni.

Vedevate l’originale prima?

A noi non era concesso vedere l’originale, perché non voleva che la visione contaminasse la nostra creatività.

Conoscevate però di cosa si trattasse?

Sì, c’era uno storyboard scritto su cui potevamo farci un’idea del genere. Se era un cartone di lotte per esempio potevamo usare musiche più sostenute… Ma noi non vedevamo comunque le immagini. Le parole quindi venivano dopo con Alessandra Valeri Manera che seguiva perfettamente la nostra metrica. Il nostro compito era quello di creare una melodia accattivante che parlasse al pubblico a cui era destinato.

Era Alessandra Valeri Manera che sceglieva a quale autore affidare la sigla?

Sì, assolutamente.

Il nome più presente è quello di Carmelo Carucci.

Sì, Carucci ha sostituito Giordano Martelli che è scomparso nel 1987. Io personalmente sono entrato nelle grazie di Alessandra Valeri Manera con il fenomeno di Kiss Me Licia. Io prima lavoravo a Tortona per la Real Music, poi nei primi anni Ottanta sono entrato nel giro milanese, come vocalist. Alcuni colleghi mi hanno invitato a lavorare a Milano con il gruppo di Paola Orlandi, e da lì non ho più smesso. In quegli anni ero il più gettonato fra i coristi milanesi. Ho fatto moltissime pubblicità. E poi è questione di caso: era agosto, in pieno periodo feriale, e Paola Orlandi non trovava nessuno per un lavoro urgente da fare. Ha trovato me che ero a casa tranquillo a Varzi. Quindi andai a Milano dove c’era una “certa Alessandra” che doveva “versionare” dal giapponese il primo Kiss Me Licia. Stava cercando la voce italiana per Mirko. Eravamo in due e ha scelto me: e da allora sono stato legato a Mirko finché è andato in onda. Sia il Mirko in cartone che quello in carne e ossa nella successiva serie con Cristina D’Avena.

Sono state utilizzate melodie originali giapponesi?

Le uniche che so che sono rimaste le stesse sono le prime dei Bee Hive (per esempio «Free way», «Long boy»), di cui abbiamo tenuto le basi ma con testi nuovi che ho cantato io. Dal secondo LP – che sono quelle del telefilm – sono invece originali di G.B. Martelli anche se volutamente emulatrici delle originali, per lo meno il secondo album.

Lo stile delle musiche delle sigle richiama molto il sound elettronico degli anni Ottanta. Condivide?

Era l’evoluzione naturale musicale di quegli anni. Io sono il principale responsabile di avere portato l’elettronica nell’88, con «Ciao Ciao, siamo tutti amici». Atari è il primo computer che ho installato, che è stato quello che ha sostituto moltissimi musicisti. Da casa componevo tutte le sequenze e poi selezionavo e inserivo i suoni campionati. Poi ho usato il Mac; l’ultimo che ho usato è il Logic Pro. Sono dei registratori digitali, attaccati alla Master Keyboard. Sono suoni che vengono rielaborati con i sintetizzatori. Ho ricevuto sempre molte critiche, ma in realtà è sempre musica “umana”: le note sono le mie e si suona sempre su uno strumento. Però componendo così, i costi di produzione venivano praticamente dimezzati. Prima di questo si facevano le basi con quasi tutti i componenti dell’orchestra: batterista, bassista, chitarrista e il maestro suonava quasi sempre la tastiera. Per esempio, Carucci non si intendeva moltissimo di computer: se il budget glielo permetteva usava batteria e chitarra vere mentre il resto era sintetico. Però se doveva incidere senza musicisti, Carucci sceglieva il suono che voleva dare e poi Piero Cairo lo sintetizzava. Io invece mi facevo tutto da solo: mi compravo i suoni già campionati o me li creavo. Comunque noi musicisti avevamo carta bianca: la fascia dei ragazzi era un’isola felice. Alessandra Valeri Manera si affidava completamente a noi dal punto di vista musicale. È stata in fondo fortunatissima. Poteva avvalersi di Carucci, me, Alessandro Pani (il figlio di Mina) e poi si sono aggregati altri più tardi.

Esistono gli spartiti di queste musiche?

Esistono alcune riduzioni negli album: Fivelandia in musica con melodia, testi e accordi. C’era un copista che si metteva a trascrivere la melodia e l’accompagnamento per pianoforte. Non esistono gli arrangiamenti originali.

Come si faceva un brano?

Si partiva da una base, cioè praticamente si partiva dalla ritmica. Si metteva giù la traccia della batteria o le tracce del piano o del basso. Poi si aggiungevano gli altri strumenti. Tanto con il computer è tutto sincronizzato. Si hanno infinite tracce e infinite possibilità. Poi si passava in studio di registrazione dove tutto quello che creato a casa si passava su nastro (da 24 a 32 tracce). Dopo era il momento della fase di mixaggio, dove si abbellivano di più i suoni con tutte le strumentazioni del fonico di sala. Quindi si chiamava l’interprete che la cantava e poi i coristi, rigorosamente veri. Erano i Piccoli Cantori di Milano, dei bambini/ragazzini a cui si aggiungevano i coristi del mio vecchio gruppo.

Quanto durava il processo?

Mettere giù un brano, posto che noi autori avessimo già effettuato la preproduzione a casa (cioè avevamo già le tracce scritte su computer) in un’ora e mezza si passavano le tracce su nastro, si mixava traccia su traccia, poi mixaggio generale…. Direi che a mettere giù la base definitiva, si utilizzano le tre ore di un turno. Alessandra Valeri Manera scriveva i testi ma non era un processo così rapido: lo faceva nei ritagli di tempo, di notte, quando il resto del lavoro glielo permetteva. Di giorno lei lavorava in ufficio. Usava la cassetta che facevamo noi a casa, non quella mixata in studio: le davamo anche il testo guida e con i suoi dizionari scriveva i testi. A quel punto si aggiungeva la voce con testo. Magari il testo portava a qualche piccolo cambiamento musicale, ma poca roba e davvero raramente. Cristina arrivava a base completata, e dopo aver studiato la melodia. Durante la registrazione c’era Alessandra Valeri Manera che curava le sillabe, non solo le parole! Nessuno era libero di cantare come voleva.

Quindi per realizzare una canzone completa in studio, eccetto la creazione dei testi e la preparazione di Cristina, quanto tempo impiegavate?

Diciamo un giorno e mezzo, calcolando anche il mixaggio finale.

Quanto la politica influenzava la scelta degli autori e dello staff?

Non influenzava. La politica non c’entrava nulla in quegli anni. Erano gli anni d’oro. Tutti stavano bene e il denaro girava. Noi eravamo pagati benissimo. Per un brano si prendeva dai tre a quattro milioni di lire, e poi c’erano i diritti d’autore.

Avete ancora dei diritti?

Sì, per fortuna sì. Solo che adesso, rispetto a prima, si prende pochissimo. Perché non c’è più il disco. Allora si vendevano 300-400 mila copie.

Era un processo molto costoso, oltre a dover pagare voi, quali costi si dovevano coprire?

C’era lo studio, che costava dalle 80 alle 100 mila lire all’ora. Io in un giorno mettevo giù due brani musicali. Con Cristina si tenevano circa sei ore di lavoro in studio per la sua parte di canto, contando anche i ritardi. All’una si smetteva e si riprendeva alle 15.

Esistevano più versioni?

Certo. La base internazionale senza accordi. Poi la base per il playback che poteva servire a Cristina, che era base più cori. Poi c’era la base strumentale, ossia quella in cui la linea melodica veniva sostituita da uno strumento, tipo il pianoforte; infine c’era il taglio sigla, che doveva stare in un minuto e venti secondi. Dal 1995 in poi è uscita una legge che obbligava a fare sigle sempre più corte. Le ultimissime sigle di Bim Bum Bam erano di trenta secondi. E da lì è iniziato il declino.

Queste sigle hanno una struttura formale riconoscibile?

Noi componevamo pensando al taglio sigla. Avevano ovviamente una introduzione, una o due strofe e i ritornelli. Era molto schematica e permetteva di tagliare e spostare il testo più significativo e il ritornello in funzione del taglio. Era un’operazione che facevamo noi con il fonico. Anche perché in quegli anni era proprio il taglio del nastro con le forbici, fisicamente. Con il digitale era diverso, ma è arrivato tardi.

Chi sceglieva le immagini della sigla?

All’inizio tutti Alessandra Valeri Manera, poi li facevano in Merak film, dove c’era Ambrogio, uno dei soci. Noi non sapevamo nulla delle immagini: quello che sapevamo per comporre era la storia, l’epoca.

Questi brani hanno forti influenze legate ai gruppi dell’epoca?

Io personalmente ero molto rock ed ero influenzato dai miei gusti musicali, che provengono dagli anni Settanta: Deep Purple, il blues di Eric Clapton, Black Sabbath, Gentle Giant.

Ci sono citazioni?

No no, assolutamente. Cercavo di essere il più originale possibile e di mescolare i diversi generi. Però la melodia era fortemente ancorata ai concetti della melodia italiana.

Semiologicamente parlando, usavate delle convenzioni musicali particolari?

Non abbiamo mai pensato a quello. Per una scena triste si usava musica triste, il minore per esempio. Il processo era molto più semplice. Io personalmente creavo la melodia e l’arrangiamento già durante il viaggio fra Milano, dove avevo ricevuto la commessa, e casa. Io forse ero il più veloce perché non ho mai avuto problemi di ispirazione.

Quante sigle all’anno le venivano richieste?

A me personalmente non moltissime. Negli anni buoni magari sette. Erano tutti gli altri lavori a occupare la maggior parte del tempo. Era un lavoro ciclico: ogni due mesi doveva uscire qualcosa. Poi io andavo all’estero, sempre per gli altri lavori.

Quale altri lavori?

In Merak Film (studio di doppiaggio con 9 sale, a Cologno Monzese) curavo tutte le parti cantate nel doppiaggio. Io facevo il cast, sceglievo coristi e doppiatori che sapevano cantare e che facevano le vocine. Il processo di sincronizzazione era simile a quelli del doppiaggio dei film. Poi c’era l’editoria: c’erano le pubblicazioni di Fabbri Editori e De Agostini. C’era la collana Storia Cartoni e Tv della De Agostini, che era affidata a me. Tantissime cassette erano affidate a me, con moltissimi inediti: per esempio la collana dedicata a David Gnomo (canzoni spagnole originali con testi italiani).

Cosa mi dice dei concerti di Cristina?

Erano concerti in cui c’erano solo le basi, lei cantava da sola con delle coreografie a fare da scenografia. Nel 1992 il Forum di Assago era pieno. Ora lavora con i Gem Boy….

Mi parla del fenomeno di Kiss Me Licia?

È nato perché i personaggi piacevano molto e per offrire a Cristina una nuova opportunità di lavoro. Le musiche iniziali erano giapponesi, che hanno una radice rock molto forte. I giapponesi hanno degli strumentisti eccellenti. Sono stati creati cinque album per quattro serie per due anni (due serie all’anno).

Cosa mi dice dei Festival?

Per ora ne ho fatti uno all’anno. Sono dei veri bagni di folla, in cui ti senti un dio. A Catania erano 8.000 che conoscevano tutti i testi!! Se c’è budget mi porto un’orchestra vera! Vorrei farne ancora.